mercoledì 4 maggio 2016
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nelle vostre sentenze «Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, 'Norme in materia ambientale', come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208...». Ecco: questo era l’incipit dell’ultimo referendum a cui siamo stati chiamati a votare. Domanda: quanti di voi hanno avuto un brivido, diciamo un dubbio dell’ultimo minuto su dove mettere la croce, pur avendo ben chiaro in testa se fermare le trivelle o permettere loro di continuare ad estrarre gas e petrolio? Di fatto, tu barri 'sì' e stai votando 'no'. O viceversa. Per non parlare delle sentenze dei tribunali: a volte sembra di ascoltare una pièce teatrale in lingua straniera, eppure si sta parlando, magari, del nostro futuro prossimo, se dovremo passarlo in una cella o potremo andarcene al mare liberi. Fra le grandi conquiste dell’antichità, che hanno permesso l’evoluzione della cultura, vi sono l’invenzione dell’inchiostro, del diritto e della retorica. Senza l’inchiostro saremmo ancora costretti a tramandarci oralmente nozioni, dati e informazioni, o a inciderle su cera o sulla pietra; senza il diritto vivremmo in una società dominata dalla forza (delle armi, della ricchezza, del potere, della paura...); senza la retorica nessuna di queste ed altre conquiste avrebbero trovato una loro forma di trasmissione, discussione o di condivisione. Semplicemente non esisterebbero. La retorica, per cominciare dalla coda, è scienza del ragionamento, non solo – come erroneamente si crede – una tecnica per imbellettare i discorsi. Essa si fonda sulle possibilità del linguaggio di costruire mondi: del resto, quando ascoltiamo un monologo a teatro che ci inchioda per due ore, non entriamo in un mondo costruito di parole? Così come quando la lettera di un innamorato ci smuove a sentimento, o una bella pubblicità ci rende simpatico e familiare un prodotto. Insomma, c’è da convenire che il linguaggio non sia solo una bella 'forma' per dire le cose, ma sia un vero e proprio condizionamento che subiamo o infliggiamo agli altri. Il filosofo francese Gilles Deleuze diceva addirittura che il linguaggio è un sistema di ordini (la maestra non 'informa' gli studenti dell’esistenza dell’alfabeto: li obbliga ad impararlo) e in base ad esso costruiamo le relazioni fra di noi. Se poi pensiamo, tornando al referendum e alle sentenze, ad un linguaggio che in qualche modo ci cambia direttamente l’esistenza, e quindi aggiungiamoci pure le leggi, i verbali delle riunioni di condominio, i regolamenti degli ordini professionali, gli atti amministrativi cui siamo con- tinuamente soggetti, allora comprendiamo quanto il linguaggio ci soggioghi in ogni situazione, sempre, anche quando crediamo di essere liberi o, peggio, crediamo di poterlo dominare a nostra volta. Paradossalmente il linguaggio giuridico, che è quello più determinante per le nostre vite, in quanto ne stabilisce le regole, instrada gli usi, sancisce i limiti e i diritti, è il più complicato e spesso incomprensibile dei linguaggi. È un problema complesso, lo sappiamo. E a problemi complessi corrispondono soluzioni complesse. Non complicate: complesse. Lo hanno capito all’Università di Pavia, quando si sono messi a riflettere sull’idea di formare i futuri legislatori, politici ma soprattutto tecnici, sul linguaggio giuridico, istituendo addirittura un master universitario in collaborazione con il Senato della Repubblica. Le due istituzioni hanno firmato, pochi giorni fa, una convenzione per la ricerca e la didattica sulla qualità della legislazione: l’obiettivo è appunto il master universitario congiunto sulla 'Lingua del diritto', che partirà nel 2017. Dunque accademici e tecnici uniti per istruire gli estensori di leggi, atti amministrativi e testi giuridici di ogni natura. Alla base c’è una convinzione profonda, espressa dall’ideatore del master, Dario Mantovani, docente di diritto romano e lingua del diritto nell’ateneo pavese: la maggior parte degli atti giuridici è scritto in maniera 'difensiva', che tende a cautelare chi li redige. In altre parole, diremmo noi, chi scrive non si vuole prendere la responsabilità del proprio atto, sapendo che non sarà un atto neutro. Dunque ciò che serve è una lezione di 'lealtà comunicativa', cioè una lezione di etica, che possa accendere negli studenti la coscienza del fatto che ogni atto comunicativo deve essere chiaro, coerente, comprensibile. E che il linguaggio, di conseguenza, deve essere adatto al contesto di riferimento. I latini dicevano che il discorso doveva essere 'aptum', cioè adeguato al contesto in cui deve essere pronunciato o letto. Torniamo di nuovo al nostro referendum: è adeguato un testo che nelle prime tre righe fa riferimento a un comma, due articoli e due leggi diverse, dovendo essere comprensibile a un potenziale pubblico di oltre quaranta milioni di italiani? La risposta è tre volte no. Non è chiaro, non è comprensibile e, cosa più grave, non è stato scritto con la volontà di essere comunicativo, di andare cioè verso il proprio uditorio. In ultima analisi, se ci pensiamo, non è del tutto democratico. Per questo motivo, nel progetto dell’Università di Pavia e del Senato sono coinvolti, oltre ai giuristi, anche i letterati, i filosofi e i neuroscienziati: perché la scrittura delle leggi, così come delle sentenze e di tutti gli atti giuridici cui siamo sottoposti è anzitutto una forma specifica di linguaggio, che determina la possibilità stessa della convivenza democratica e ci costituisce come individui. Quelle parole fondano la nostra convivenza e, in qualche modo, la narrano, ne sono una rappresentazione, come ha sottolineato Clelia Martignoni, docente a Pavia di letteratura italiana, in un recente convegno sul tema che si è svolto proprio al Senato. Se pensiamo a una sentenza di tribunale, troviamo una parte narrativa (come si sono svolti i fatti), una argomentativa (le prove pro e contro) e una normativa, cioè il dispositivo della sentenza, che dice se vai in galera oppure no. Tre generi di discorso in un unico testo, spesso incomprensibile. Per non parlare delle leggi, che sono frutto di una scrittura collettiva, dalle commissioni al Parlamento, con emendamenti e sgambetti e trucchetti, tutti di natura politica, che alla fine contribuiscono a confezionare testi spesso illeggibili. Il lavoro quindi non manca, nella formazione degli studenti, più nella coscienza che nella tecnica. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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