lunedì 17 ottobre 2011
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«Ieri papà mi ha fatto la predica, dicendo che mi espongo troppo, che nessuno si espone quanto me e che poi queste cose non le apprezzano, non le capiscono…». Così quarant’anni fa, in una lettera inviata al fratello minore, si confidava un giovane cronista del quotidiano palermitano “L’Ora”, Giovanni Spampinato. La discussione familiare aveva riguardato le scottanti inchieste che stava conducendo nella sua città, Ragusa. Fu un presagio funesto, quello del papà di Giovanni Spampinato. Quel ragazzo gli fu ucciso due anni dopo, a colpi di pistola, dal figlio di un giudice che non gli perdonò l’insana passione che nutriva per il giornalismo puro: quello d’inchiesta, che anela sempre e soltanto alla verità. Non a caso, “L’Ora”, diretto dal temerario e indomito Vittorio Nisticò, all’indomani dell’omicidio del suo corrispondente, titolò a tutta pagina: «Assassinato perché cercava la verità». Giovanni aveva 25 anni, era uno studente in Filosofia, iscritto al Pci e partecipava attivamente alle iniziative sociali del gruppo spontaneo dei giovani cattolici ragusani “Dialogo”. Quasi quarant’anni dopo, il giornalista Alberto Spampinato per primo ha censito e raccolto le storie di centinaia di cronisti, la maggior parte giovani, come era suo fratello Giovanni, minacciati nell’esercizio della loro attività giornalistica. Sono i figli e i nipoti ideali di Cosimo Cristina, Mauro De Mauro – fratello dell’ex ministro Tullio De Mauro, che firma l’editoriale di questo numero – e Giovanni Spampinato, tanto per rimanere ai tre cronisti de “L’Ora” assassinati. Sono i narratori umili e senza volto che provano ogni giorno a squarciare il velo spesso in cui è avvolto il Paese dei misteri, ritrovandosi quasi sempre scaraventati contro il muro di gomma dell’omertà.
Le loro urla di denuncia spesso non rimandano l’eco, quello delle redazioni di periferia o delle case di provincia in cui se ne stanno rintanati, protetti dalle loro famiglie, a volte scortati dalla polizia. «Nell’immaginario collettivo ormai si pensa che di giornalisti minacciati in Italia ce ne sia soltanto uno, Roberto Saviano. Noi invece sapevamo da tempo che erano molti di più e per farlo sapere anche agli altri nel 2008 abbiamo deciso di fondare l’osservatorio “Ossigeno per l’informazione”. L’anno dopo, abbiamo pubblicato il primo rapporto ed è risultato, per difetto, che tra il 2006 e il 2008, in Italia sono stati almeno duecento i giornalisti coinvolti in minacce». Se si guarda all’ultimo quinquennio si sale fino a ottocento casi. «E sono solo gli episodi che ci sono stati segnalati. Molti casi infatti restano segreti. Quelli realmente accaduti – sottolinea Alberto Spampinato –, probabilmente sono dieci volte di più. E in quella casistica vanno inseriti non solo i giornalisti che hanno subito violenza fisica e intimidazioni, ma anche pretestuose richieste di risarcimento e querele per diffamazione infondate, puramente strumentali. La nostra vetusta legislazione consente l’abuso di questi strumenti giudiziari per zittire un giornalista». È una legge punitiva che quando fu varata, nel 1948, previde condanne fino a sei anni di reclusione mentre per i rapinatori la pena massima era di quattro anni. E le richieste di danni oggi ammontano a cifre vertiginose, centinaia di migliaia se non milioni di euro. Cifre in grado di mettere in ginocchio grandi editori, figurarsi giornalisti precari, spesso ascritti alla categoria collaboratori da cinque euro a pezzo o, nella migliore delle ipotesi, assunti come “ro” (redattori ordinari) in piccoli giornali che garantiscono stipendi da fame. E poco consola che questa non sia solo una realtà italiana, ma una piaga di dimensione planetaria, come conferma l’ultimo rapporto dell’Unesco: l’80% dei 125 giornalisti uccisi nel mondo nel 2008-2009, non erano corrispondenti di guerra, ma cronisti locali (di stampa, radio, tv e internet) che facevano inchieste. E dietro di loro sono tanti quelli ancora minacciati.
Dal Messico alla Russia, arrivando in Italia, i cronisti locali, i corrispondenti, i giornalisti di inchiesta, sono le vittime sacrificali delle mafie e dei grandi centri di potere politico-finanziario, avvezzi a imbavagliare l’informazione fino a soffocarla. Dall’89 a oggi sono stati trecento i giornalisti russi assassinati. Da noi negli ultimi anni per fortuna non si sono registrate altre “morti bianche” della stampa, «ma per numero di casi, estensione e gravità l’Italia è la pecora nera d’Europa – interviene Spampinato –. E le minacce si realizzano con forme subdole, difficili da contrastare con gli attuali strumenti». Eppure nel nostro messico napoletano, oltre ai “minacciati speciali” – Lirio Abbate, Rosaria Capacchione e Roberto Saviano –, anonimi cani sciolti dell’informazione scrivono e aggiornano, giornalmente, nuovi capitoli della Gomorra nazionale. Arnaldo Capezzutto, ha avuto il coraggio di denunciare il figlio dei boss di Forcella accusato di aver ucciso l’innocentissima quattordicenne Annalisa Durante. «Non credo di essere un eroe. Ho fatto semplicemente il mio mestiere e ho potuto dimostrare quello che a Napoli ormai la gente pensa sia utopia, mentre invece è ancora possibile: denunciare e mandare in galera dei camorristi. Io e don Luigi Merola ce l’abbiamo fatta e naturalmente abbiamo pagato con minacce di morte, con l’isolamento e personalmente, in parte anche con la perdita del lavoro. In attesa che qualche giornale mi faccia riprendere le mie inchieste, adesso per vivere scrivo di tutt’altro». Non scrive più di camorristi, Capezzuto, come faceva nella redazione di “Napoli Più”, dove un giorno arrivò una lettera anonima con dei disegni di teste mozzate e un pizzino sgrammaticato, specchio fedele dell’ignoranza diffusa della malavita, in cui stava scritto: «Ti facciamo fare la fine di “Siano”». Si riferivano a Giancarlo Siani, il giornalista de “Il Mattino” ammazzato dalla camorra nel 1985. Ma la camorra dei casalesi, così, come la ’ndrangheta dalla Locride e la mafia di Corleone, ormai sono arrivate al Nord radicandosi in pianta stabile, come dimostrano le ripetute minacce alle tv in Lombardia, i siti oscurati in Veneto, se solo qualcuno si azzarda a pubblicizzare le loro torbide manovre. Nella pacifica Repubblica di San Marino, un giorno David Oddone, un redattore de “L’informazione di San Marino”, si accorge per caso che la “lavanderia comune” dei proventi dei loschi traffici finanziari, ha sede proprio ai piedi del Monte Titano. «Tutto è cominciato dalla scoperta di un anomalo fenomeno di settemila appartamenti sfitti a San Marino. Da lì è partita la mia inchiesta che è andata a toccare gli interessi di quelle aziende locali su cui da tempo speculano le organizzazioni mafiose. Un lavoro che mi ha appassionato e che è stato possibile per la volontà di un editore piccolo, ma libero». L’editore è Carlo Filippini che ha anche pubblicato il libro-inchiesta di Oddone Mafie a San Marino. «È la raccolta degli articoli che hanno fatto luce su una verità di cui, come spesso accade, tutti sanno e tutti ne parlano, ma nessuno scrive mai. Ho ricevuto una quarantina di querele che però grazie al diritto sanmarinese che è molto più snello ed europeista rispetto a quello italiano, sono state tutte archiviate. Certo mi ha fatto male quel biglietto intimidatorio, “sei morto”, ma è ancora più doloroso avvertire quel senso di vuoto che ti creano intorno, nonostante tu stia lavorando per informare una comunità, pubblicando notizie vere. Ma provo dolore anche quando penso a tutti quei miei colleghi che lavorano al Sud. Fare il giornalista in Campania, in Sicilia o in Calabria, non è la stessa cosa che nel resto d’Italia...».
Lo sanno bene e lo sperimentano tutti i giorni sulla loro pelle, con teste di maiale recapitate, proiettili inesplosi e bombe che fanno saltare le loro auto, quella ventina di cronisti calabresi minacciati dall’inizio dell’anno. Stanno colpendo al cuore coloro che con il sacrificio e l’impegno quotidiano difendono quell’articolo 21 della Costituzione che forse non è banale ricordare: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». È il primo comandamento di chi ha deciso di stare dalla parte giusta, di informare realmente e di ridare ossigeno alle troppe verità inquinate. Ed è per questo che vanno protetti da ogni forma di minaccia. «Tutte le persone che fanno parte di una comunità sana, hanno il dovere di fermarsi, di riflettere, di impegnarsi personalmente e collettivamente per capire come sono andate le cose, per farsi un’idea precisa e trarne insegnamento», conclude Alberto Spampinato, fratello di Giovanni: il giornalista assassinato, perché cercava la verità.
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