lunedì 15 ottobre 2012
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Verso la fine del 2012, si sta tornando all’atmosfera delle vecchie e mai sopìte paure escatologiche: la «Fine del Mondo», attesa da alcuni per il 21 dicembre prossimo, prende l’aspetto di una profezia calendariale maya. L’attesa, anzi la paura-speranza dell’Apocalisse, è vecchia quanto la fede abramitica nelle sue varie espressioni (l’ebraica, la cristiana e la musulmana), e del resto in forme diverse è ed era comune anche a vari sistemi mitico-religiosi o filosofici. Le nostre "nuove" inquietudini si tingono continuamente di antico. Esattamente 8 secoli or sono si viveva un clima molto diverso da quello odierno, ma non privo di riferimenti rispetto ad esso; e sotto molti profili ben più intenso. Il XIII secolo dopo la nascita del Cristo era guardato con timore: presto sarebbe arrivato il 1233, tradizionalmente ritenuto il tredicesimo centenario della sua morte e resurrezione; e si aspettava con particolare apprensione quel 1212 che ripeteva due volte il fatidico numero corrispondente a quello dei mesi, delle costellazioni e degli apostoli. Avvenimenti terribili stavano frattanto scuotendo l’Europa cristiana: si era scoperto che una delle più belle e dolci regioni del Mediterraneo occidentale, la Provenza-Linguadoca, era ormai preda di una cupa eresia che negava la vita e che in tutte le manifestazioni di essa scorgeva il Male, la potenza della materia avversa allo Spirito. Contro quelli che si definivano «càtari» (dall’aggettivo che in greco indicava la purezza) e che nel resto del continente erano noti come «albigesi» – dalla città provenzale di Albi, loro principale roccaforte – un grande pontefice, papa Innocenzo III, aveva scatenato una crociata a combattere la quale erano stati invitati soprattutto i duri e feroci signori feudali della Francia settentrionale: e la furia delle armi stava soffocando l’eresia, ma con essa stava spegnendo nel fuoco e nel sangue anche la raffinata cultura di quelle regioni.Intanto, nella penisola iberica, l’ondata dei saraceni detti «almohadi», originaria del Maghreb, rischiava di sommergere di nuovo le città da poco riguadagnate alla cristianità. Il pontefice faceva incessantemente predicare la crociata, tanto quella contro gli eretici della Francia meridionale quanto quella contro gli infedeli di Spagna: ma sentiva che anche la santa impresa stava a sua volta degenerando nella ferocia, nell’avidità, nella corruzione. In tanto disorientamento, strane notizie cominciarono a giungere nella primavera dai Paesi Bassi, dalla Renania, dal nord della Francia. Si parlava di folle di penitenti che avevano preso la croce e che marciavano attraverso l’Europa quasi inermi, chiedendo dovunque passassero a gran voce la pace e l’amore. Attraverso la Renania e la Lorena si riunirono verso Pasqua a Colonia, e tra loro emerse un capo dal nome fatidico, Nicola. Attorno a lui si riunivano persone che le nostre fonti, in latino, chiamano «pueri»: una parola strana, ambigua, che può significare «bambino» ma anche «mercenario» e perfino «masnadiero».
Eppure, sembra che davvero attorno a Nicola ci fossero dei fanciulli, o almeno dei giovanissimi, e fossero loro a dare il tono profetico alla spedizione: parlavano di prodigi e di apparizioni. Questo fitto gruppo di penitenti tedeschi, che passarono le Alpi e si trovarono alla fine di agosto a Piacenza sulla Via Francigena, si unirono forse con altri penitenti, giunti dalla Francia, a capo dei quali v’era un altro personaggio carismatico, un pastorello  conosciuto come Stefano di Cloyes. Un triste destino aspettava queste bande, ch’erano senza dubbio disordinate ma in fondo non troppo capaci di nuocere. Giunsero in gruppi sparsi al Mediterraneo: alcuni a Marsiglia, altri a Genova, altri ancora perfino a Brindisi. Brandivano un simbolo, la croce a tre braccia o Tau: ritenuta il segno salvifico di Mosè, ben conosciuta dai pellegrini e soprattutto dall’Ordine monastico di sant’Antonio di Vienne ma nota anche allo stesso Francesco d’Assisi, che proprio in quei mesi sembra stesse facendo il pellegrinaggio verso Santiago de Compostela e che forse li vide: ma le fonti che ci narrano della sua vita su tutto questo tacciono. La crociata «dei fanciulli», che avrebbe ispirato scrittori e poeti tra Otto e Novecento, finì nel nulla. Dispersi, molti di questi «bambini» finirono schiavi di mercanti-corsari di pochi scrupoli; dalle Alpi alla Sardegna molte leggende ancora li ricordano confusamente. La loro memoria si è andata confondendo con quella degli «Innocenti» trucidati da Erode; e difatti, nel caso di queste torme del 1212 come di altre, ad esse simili, suscitate ancora una volta dalla passione crociata verso il 1250 e il 1321 (i «pastorelli»), si sarebbe parlato di «crociata degli innocenti». Il ricordo di questo strano, oscuro episodio è una delle tante prove del successo riscosso dalla predicazione della crociata, fermamente voluta da Innocenzo III, e al tempo stesso del suo clamoroso fallimento.
Nel 1204 i crociati che con la sua benedizione avrebbero dovuto riconquistare Gerusalemme finirono con l’abbattersi su Costantinopoli; nel 1212 i guerrieri della croce in Provenza scannarono e massacrarono altri cristiani, sia pur eretici, mentre tra Castiglia e Andalusia alcuni loro valorosi colleghi fermavano i mori nella battaglia di Las Navas de Tolosa: ma Gerusalemme restava nelle mani degli infedeli e il papa, desideroso di  rifondare la spiritualità della Chiesa, indiceva per il 1215 un grande concilio che avrebbe dovuto rinnovarne la vita. Testimonianza di ciò resta una splendida enciclica, la Quia maior, considerata una dei pilastri del diritto canonico. Si dice che il papa piangesse su quei poveri bambini-martiri, ingannati e corrotti, ma che pur si erano mossi nel suo nome e per amore del Cristo. Un’altra leggenda: forse non lontana da quella verità che non conosceremo mai.
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