sabato 26 marzo 2016
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Ho sul tavolo due fascicoli di opposta provenienza. Sono uomini che guardano la vita da opposte posizioni, e che mi invitano a riflettere sulle miserie del mondo, sulle differenze stridenti che dividono gli uomini, sulla insincerità di quelli che dovrebbero, per le convinzioni che hanno, sdegnare le armi della doppiezza e del machiavellismo. Riflessioni che mi commuovono; forse me le fanno proprio perché ho almeno la capacità di commuovermici e di capire. E le parole di destra e quelle di sinistra convengono nel criticare la società, e nel sentire la fondamentale ingiustizia della sofferenza. C’è una gara che sarebbe bella, se non fosse troppe volte di impostazione demagogica, fra chi grida più forte, in difesa del povero e dell’oppresso. Nessuno vuole la parte dell’oppressore o del suo paraninfo, e dare al dolore quella fondamentale importanza che già ha dato Cristo. Marx ci ha impaurito tutti; e tutti abbiamo accettato - per usare una espressione energica di San Paolo - di svuotare la croce. Eppure resta sempre vero che gli uomini grandi, sono grandi proprio in virtù di una antitesi dolorosa con il mondo fuori di loro, o estraneo alla loro vera personalità. Lasciamo da parte i santi, che per altro oggi sono diventati di attualità, per la attenzione che voci importanti da Berson a Muller a Huxley hanno concentrato su loro, i quali evidentemente sono cresciuti nel freddo, nella povertà, nella incomprensione e nella ostilità dell’ambiente; ma anche coloro che sono grandi di una grandezza umana, non sono forse maturati nel dolore? Non è stata forse la loro solitudine, la loro impopolarità, la pazienza lunghissima di attendere i tempi e l’ambiente in cui le loro idee potessero trovare spazio e attuazione, che costituisce il loro fascino e la loro grandezza? E non il dolore in sé, quanto il senso della sua dignità, della sua fecondità è quello che ha costruito delle personalità di rilievo e delle guide dell’umanità? Un dolore confortato da speranze, da sogni grandiosi e spesso irreali, tuttavia tali da conferire alla vita più dura e più contrastata una tale poesia e una tale aristocrazia, che nessuno di questi solitari cambierebbe la sua vita con la più fortunata vita del mondo. Lo so che, dicendo questo, qualcuno con la solita capacità di fare le illazioni più temerarie, mi accuserà di volere la sofferenza a qualunque costo. Visto che il dolore fa gli uomini grandi, lasciate gli uomini nel dolore, e nella miseria, perché lottare, soffrire per il trionfo di una maggiore giustizia sociale? È inutile rispondere ad una obiezione che evidentemente non raggiunge le mie intenzioni. È necessario non perdere il tempo, quando si ha un fine da raggiungere che è di tale importanza. Lasciamo che gli uomini lavorino alla giustizia sociale, aiutiamoli con lealtà ed energia, ma non dimentichiamo come cristiani, il dovere di predicare la croce, la visione trasfiguratrice che del dolore ha il cristianesimo. Se, specialmente i giovani, si educano con le equazioni demagogiche del nostro giornalismo; «il dolore è uguale a ingiustizia, la miseria è solo il risultato della malvagità di un altro di tale categoria, la malattia persino è il risultato di una condizione sociale di involuzione, che deve essere modificata», noi creiamo della gente che si ribella, che odia, che maledice e che non costruisce. Forse perché abbiamo perduto il significato della sofferenza, l’unico strumento della grandezza umana, esistono pochi uomini grandi. Bisogna che ci sia qualcuno, in mezzo al vociare di uomini di tante correnti, spesso volgari e superficiali, che ancora creda alla segreta bellezza del dolore, alla sua dignità e alla sua fecondità. Soprattutto che dimostri tale bellezza, con la sua calma, con la sua equanimità. Non dimenticherò più una osservazione di un ambasciatore inglese a Bruxelles, che trovai in un libro, diversi anni fa. L’ambasciatore incontrò, negli ambienti diplomatici della capitale belga, i nostri compatrioti in esilio o volontario o coatto, e Confalonieri e Maroncelli e Gioberti. La loro dignitosa povertà, la fede nella risurrezione d’Italia, tutte le loro speranze che calavano da un linguaggio sereno, senza invettive, senza odio, tutto questo esprimeva la fede nelle verità, nella giustizia, nella fecondità del dolore, e dava alla causa che essi rappresentavano, una forza e una profondità, contro cui si spezzava la strapotenza materiale dell’impero che affondava gli artigli nella patria nostra. Ora di questi grandi esempi ha bisogno la nostra generazione. Giustizia sì, benessere per tutti sì, lotta contro il dolore sì; ma non «svuotiamo la croce» del suo valore. Come al tempo apostolico la croce è oggi stoltezza e follia; ma non abbiamo paura di questa follia. Ci sarà sempre chi nelle parole di chi sente la divina bellezza del dolore , e soprattutto nel suo esempio, sentirà di avere accanto un fratello. Anche se le parole di Gesù stonano nel mondo dopo che hanno parlato Nietzsche e Marx, diciamole ad alta voce. «Beati o voi che piangete!», voi che avete pianto, perché non nel letame, su cui posano i fedeli della carne, guardati con odio ed invidia; ma sul Calvario rupestre, nasce quella grandezza umana che ci ha consolato di sublimi armonie di linee, di suoni, di colori, e di parole e che ci ha insegnato gli arditi itinerari che toccano Dio. * testo tratto da L’Esare Nuovo del 20 febbraio 1949 © RIPRODUZIONE RISERVATA Spiritualità «Se educhiamo i giovani all’idea che dolore è uguale a ingiustizia, creiamo soltanto gente che odia e non costruisce Sul Calvario nasce invece la grandezza umana»
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