lunedì 14 luglio 2014
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Nonostante le perplessità, i dubbi, le diffidenze dei lettori, crediamo che la maggioranza dei critici letterari italiani sia immune da catastrofiche complicità con l’industria culturale. Tuttavia le diffidenze dei lettori non sono prive di fondamento. Essi, ad esempio, acquistano un romanzo molto elogiato dai critici in tutte le sedi, e, dopo averlo letto, rimangono a dir poco perplessi. A questo punto scatta la diffidenza verso i critici, accusati in molti casi di essere stati plagiati, o peggio, dall’editore che ha pubblicato quel tal romanzo. Ciò può accadere, è accaduto, accadrà. Ma statisticamente è un fenomeno assolutamente minoritario, un’eccezione che per fortuna non è mai diventata una regola.La verità è che tra i lettori comuni e i critici c’è una sfasatura culturale. Non intendiamo affermare che i critici siano più intelligenti dei lettori; tutt’altro. Intendiamo affermare e confermare che la cultura del critico letterario è specialistica, quindi lontanissima dalla cultura letteraria del lettore. I parametri con cui un critico letterario giudica un romanzo sono il frutto di un lungo e strenuo tirocinio, di una approfondita frequentazione dei testi critici altrui e delle opere creative. Alla fine egli emette un giudizio che non dipende solo dal suo gusto personale; anzi al contrario è il risultato di un lavorio intellettuale e morale fatto di confronti tra opera e opera, di paragoni tra la tradizione e la contemporaneità, di incontri e scontri tra metodologie ed ideologie diverse.Insomma, il giudizio critico che il lettore legge somiglia alla punta di un iceberg, la cui parte sommersa fa parte della biografia culturale del recensore. A rigore, questa biografia non dovrebbe interessare a nessuno, altrimenti si giungerebbe all’assurdo di misurare la validità di un critico dalle esperienze esistenziali che ha fatto, degli studi che ha compiuto e dalla biblioteca che ha in casa. No, il critico letterario militante si identifica con quello che scrive, e non con quello che avrebbe potuto scrivere se avesse avuto un altro curriculum. Sono considerazioni ovvie, che però non sembrano affatto tali ai lettori comuni. Di qui nascono equivoci colossali, immedicabili malintesi, interminabili lagnanze, e sospetti. Soprattutto sospetti. Il linguaggio del critico letterario militante viene accusato di essere volutamente oscuro e cifrato, per intimidire il lettore comune. Insomma sarebbe il linguaggio dell’oracolo che parla per enigmi, e beato chi lo capisce. E invece non c’è nessuna volontà di intimidazione nel linguaggio del critico onesto. Anzi, la sua preoccupazione è di farsi capire, di essere il limpido intermediario tra l’opera e il lettore. Però saremmo degli emeriti ipocriti se non dicessimo che esistono dei critici letterari che usano ad arte un linguaggio che travalica i limiti della chiarezza concettuale e dell’osservanza grammaticale. Ma se si analizza la prosa di questi critici si capisce subito che essi non hanno alcun desiderio di comunicare, bensì di impressionare. Impressionare chi? In primo luogo, se stessi. In secondo luogo i loro colleghi in oscurità. E infine il pubblico dei lettori. Tali critici sono gli epigoni, sovente inconsapevoli, della critica ermetica degli anni tra le due guerre. Quella critica giustificava la sua ineffabilità con l’alibi di sfuggire agli ottusi rigori della censura fascista. È una spiegazione che molti accettavano volentieri.A nostro modesto avviso, è invece insostenibile, giacché era meglio tacere piuttosto che creare splendidi fumi del tutto privi di arrosto. E infatti quando nel dopoguerra prese corpo una letteratura magari rozzamente realistica, ma chiara nella sua rozzezza documentaria, i critici ermetici (i più sprovveduti: dobbiamo sottolineare) cambiarono la lingua ma non il vizio, che era quello di emettere giudizi infarciti di espressioni tratte da uno spiritualismo d’accatto. E non a caso quei critici ebbero l’oggettiva funzione di non far capire il significato sociologo-letterario del neorealismo. Abituati ad alludere, finirono per non comprendere che il neorealismo creativo abbisognava di una critica chiara e perfino grossolana, proprio per metterne in evidenza, senza mezze parole, i limiti.Molti anni sono trascorsi, e tuttavia la critica ermetica continua a pulsare come una vena sotterranea nella prosa di non pochi critici letterari italiani. E pazienza quando ad essere afflitto dal morbo ermetico sono gli accademici, i cui scritti sono in generale destinati ai vetusti scaffali. I guai cominciano quando si entra nell’ambito della critica letteraria militante, che si esercita sui giornali e sui settimanali. Qui gli epigoni dell’ermetismo spandono a piene mani i loro messaggi segreti, la cui interpretazione esige una fatica greve e talora vana, non solo dai lettori comuni, ma dagli stessi addetti ai lavori. Nonché cercarla, la chiarezza diventa una sorta di bestia nera da evitare, giacché gli epigoni dell’ermetismo sono persuasi che il prestigio si acquisisce con preziose oscurità. A questo punto, il sospetto che pervade i lettori comuni di essere turlupinati, non è affatto gratuito, poiché la prosa critica degli epigoni dell’ermetismo ha ancora una volta il compito di innalzare barriere fumogene tra l’opera e il lettore. I “novissimi” ermetici sono complici oggettivi dell’industria culturale, che brama di avere lettori confusi, sconcertati, impressionabili, e infine docili al consumo, al consenso, all’acquisto, o anche al rifiuto di un libro pubblicato dalla concorrenza.È fin troppo noto che le monete cattive scacciano le monete buone, così che il lettore comune è portato a fare di ogni erba un fascio, cioè a mettere nello stesso mucchio i critici fumogeni e i critici semplicemente ardui. Costoro, ripetiamo, usano non di rado un linguaggio specialistico, ma se si analizza questo linguaggio, con la doverosa pazienza, ci si accorgerà che non nasconde il vuoto, bensì un concetto sottile e dialettico, come è sottile e dialettica l’opera sottoposta a interpretazione critica.Si obietterà: come fa il lettore comune a distinguere i critici fumogeni dai critici ardui? L’abbiamo detto: con una doverosa pazienza, magari leggendo due o tre volte lo stesso pezzo critico. C’è chi non accetta di sobbarcarsi tale fatica, pretendendo di capire al primo colpo. Noi siamo dalla parte di questi lettori, ma vogliamo ricordare loro che esiste quella sfasatura culturale di cui parlavamo all’inizio. Allo stato attuale delle cose, un critico che si fa capire al primo colpo di solito è un demagogo: la sua semplicità è faciloneria, approssimazione, pigrizia e perfino disonestà. Un critico serio non deve abbassarsi al buon senso del lettore comune, ma deve fare in modo che il presunto consenso, che è spesso conformismo mentale e morale, si sciolga dal torpore dell’abitudine e dialoghi attivamente con il linguaggio del recensore. Soltanto così è possibile eliminare quella sfasatura culturale, e pervenire a poco a poco al possesso di un linguaggio comune, che è precisamente il fine critico letterario onesto.Non ci illudiamo: è una strada dura da percorrere, e la meta non è qui svoltato l’angolo. Ma se si vuole creare una base di intesa, la strada è questa; e le allettanti scorciatoie indicate dai critici faciloni, sono in realtà dei vicoli ciechi, o addirittura delle strade in discesa, perché non stimolano i lettori a superare per così dire se stessi, ma li costringono a crogiolarsi ancora di più nel loro acritico buonsenso, e quindi a ribadire la sfasatura culturale.
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