giovedì 22 dicembre 2016
Dopo 20 anni di battaglia culturale “Lo Straniero”, il bimestrale di Goffredo Fofi, cessa le pubblicazioni. È la fine di un’epoca per la pubblicistica di impegno civile?
La copertina del primo numero della rivista “Lo Straniero”

La copertina del primo numero della rivista “Lo Straniero”

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Annunciata in un editoriale di Goffredo Fofi già nel numero di luglio, la chiusura dello “Straniero”, dopo venti anni di vita e l’uscita di duecento numeri, arriva ora, a dicembre, con la pubblicazione di uno speciale “Almanacco” fitto di «interventi, saggi, proposte, poesie, disegni». L’aspetto è festoso, la sostanza un po’ meno. Le riviste sono da tempo e dovunque uno strumento culturale in via di sparizione e quando di sparizione ne arriva un’altra non si riesce a stare allegri. Ci sono i blog, è vero, le riviste e i gruppi online (di cui so poco), ci sono i supplementi dei giornali, ma rispetto ai periodici “stile Novecento” è certo cambiato qualcosa, anzi molto. Le riviste erano appunto qualcosa di più di uno spazio culturale che i giornali offrono ai lettori come servizio informativo e orientativo speciale. Tutte o quasi le riviste nate nel Novecento erano espressione di gruppi intellettuali piuttosto coesi e di una direzione fortemente caratterizzata in senso ideologico. Le ideologie hanno subito un’involuzione degenerativa soprattutto quando intendevano rispecchiare fedelmente un’ortodossia politica. Quando però erano passione per le idee, per la loro analisi e discussione, quando implicavano dialogo e confronto anche aspro ma senza l’esercizio di alcun potere repressivo o censorio, le convinzioni ideologiche hanno svolto una funzione fondamentale e irrinunciabile: hanno mantenuta viva la sensibilità morale per il rapporto fra pensiero, vita vissuta, comportamento pubblico e azione politica.

La critica, ogni tipo di critica, ha quasi sempre trovato nelle riviste il luogo privilegiato di elaborazione e comunicazione, nelle forme veloci e incisive dell’intervento, del saggio, della recensione approfondita. Finché c’è stato un pubblico che le leggeva e magari le collezionava, le riviste hanno mediato fra i libri e i giornali, influenzando entrambi, fra la cultura degli specialisti e quella diffusa dei lettori non specialisti ma interessati al pensiero, alle arti, alle scienze, alla società e alla politica. Gli intellettuali “militanti” delle più varie tendenze, comunque attenti al presente come misura del rapporto fra passato e futuro, hanno sempre fondato o sognato di fondare riviste: Croce e Kraus, Ortega e Eliot, Gobetti, Sartre e Vittorini, ma perfino Leopardi o Benjamin. E anche il nostro Franco Fortini, il cui istinto fu piuttosto quello di intralciare «con le migliori intenzioni » le riviste con cui collaborava: come il “Politecnico” (1945-1947), “Officina” (19551959) e “Quaderni piacentini” (1962-1984). Negli ultimi cinquant’anni Goffredo Fofi è stato il tipico autore da rivista e di riviste. Ha pubblicato molti libri e ha collaborato a diversi giornali. Ma non gli è mai piaciuto scrivere libri (richiedono una prolungata dedizione esclusiva) e ha sempre diffidato dei giornali e dei giornalisti (il mestiere corrompe). Dopo aver partecipato da condirettore per qualche tempo a “Quaderni piacentini” con Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, fondò negli anni Sessanta “Ombre rosse”, poi “Linea d’ombra” all’inizio degli anni Ottanta e infine, prima di dedicarsi allo “Straniero”, lanciò per pochi numeri “Dove sta Zazà” e “La terra vista dalla luna”. Più recentemente ne ha creata una nuova a cui si augura un buon futuro, “Gli asini”.

Se il presente e il “presentismo” è ciò che più ispira e dà ragioni di vita alle riviste, Fofi ne ha inventate sempre di nuove per aprire ai più giovani, a generazioni non ancora compromesse con le ambizioni, le rassegnazioni, le prudenze e le vanità dell’età matura. Che Fofi sia periodicamente deluso di tutto, non c’è dubbio. Ma non c’è dubbio che resti sempre incapace di fermarsi e mettersi comodo. Chi lo conosce lo sa bene e chi non lo conosce dovrebbe intuirlo: il senso di responsabilità morale e sociale, più che politica, non lo lascia in pace. L’“Almanacco” conclusivo dello “Straniero” si apre con una vignetta di Altan e una famosa poesia di Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso, una delle sue più belle e malinconiche. In Altan si fronteggiano due figure, una con la cravatta rossa e una con la cravatta verde, ma in tutto e per tutto identiche, come sempre più simili sono in Italia gli avversi schieramenti politici. La prima figura chiede: «Gli italiani cambieranno mai?». La seconda risponde: «Magari, per fare un dispetto a qualcuno». Cruciale la domanda, mentre la risposta sembra un po’ fiacca, una delle mille possibili, che non riguarderebbero solo gli italiani, quanto l’intero genere umano: se non riuscirà a cambiare in meglio, dato il suo attuale potere economico, tecnico e bellico, finirà per autodistruggersi. Perché chiude “Lo straniero”? Perché non è riuscito a cambiare il suo pubblico? Anche in questo caso lascerei la domanda aperta a molte risposte, che potranno essere sia intellettuali che pratiche, sia diagnostiche che terapeutiche. Cambiare (anche se stessi) è la cosa più difficile. Eppure non bisogna smettere di provarci.

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