giovedì 14 novembre 2013
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Solo Cristo può rendere testimonianza a se stesso come Figlio incarnato, rivelatore e salvatore; ma solo un credente con la sua testimonianza può consentire al testimone per eccellenza di rendersi ancora personalmente presente nella vita di uomini e donne di ogni tempo. La logica testimoniale di Cristo presiede anche all’esistenza dei credenti in lui. Tra fede e testimonianza si può descrivere un rapporto come tra interno ed esterno: sono due facce della stessa medaglia. La testimonianza rende manifesto ciò che la fede vive e sperimenta.Il credente in Cristo innanzitutto accede alla fede grazie alle testimonianze che incontra sul suo cammino; la cosa straordinaria è, però, che egli, attraverso i segni e le testimonianze disposte sulla sua strada, incontra Cristo in persona. Egli rivive l’esperienza archetipica della rivelazione nella sua dinamica di svelamento e ri-velamento. Sì, perché la rivelazione non è lo schiudersi del suo splendore senza zone d’ombra, ma il manifestarsi per segni, tra luci e ombre, del mistero di Dio in Cristo come ultimo fondamento della realtà a cui aderire in libertà. Essa contiene abbastanza luce per lasciarsi riconoscere, ma conserva abbastanza ombra per non imporsi e costringere a credere: poiché non può esserci fede senza adesione libera, e un’adesione libera non si produce senza lo scarto posto non solo dalla scarsa luce, ma anche dalle resistenze del cuore. Gli occhi dell’uomo non possono vedere Dio: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato». La dinamica dell’incontro di fede prevede innanzitutto l’iniziativa di Dio, il quale tocca il cuore dell’uomo che incrocia simultaneamente la parola e il gesto del testimone; nell’atto in cui si lascia smuovere nel cuore, l’uomo raggiunto da Dio acquista gli occhi che fanno vedere i segni inconfutabili della sua presenza e della sua azione; infine, egli deve volere, deve consentire con tutta la sua persona al tocco dello Spirito che permette di vedere la realtà che solo gli occhi della fede possono scrutare.È di assoluta importanza comprendere, a questo punto, che l’evento di fede ha anche – ma non solo – una rilevanza intellettuale: esso si compie, infatti, come in Cristo Gesù e lungo tutta la storia della rivelazione, grazie a «eventi e parole intimamente connessi». La sua efficacia non è solo di ordine conoscitivo, poiché raggiunge la persona intera. Di fatto, il dono della fede instaura una relazione di comunione interpersonale profonda con Dio per Cristo nello Spirito. Quella relazione con le Persone divine che per Gesù sta a fondamento della sua identità e all’origine della sua missione, per il credente in Cristo è il dono del suo incontro di fede [...].La nostra presenza testimoniante deve misurarsi, e anche verificarsi, da un lato con un carattere non trascurabile della rivelazione di Gesù Cristo e dall’altro con un aspetto caratteristico del clima culturale odierno. L’aspetto che è stato indirettamente segnalato a proposito del rifiuto opposto a Gesù conducendolo a morte è quello che potremmo chiamare il carattere giudiziale della sua parola e della sua presenza. Quella di Gesù è un’offerta di sapienza divina e di salvezza che interpella la libertà, ma mette in questione ponendo precise condizioni ed esercitando un giudizio secondo verità e giustizia sull’esistenza e sulla storia dell’uomo.Prima delle sue parole, la sua stessa persona e il suo modo di vivere sono una condanna verso coloro che si chiudono alla verità e al bene, a Dio e al suo inviato. La sua presenza non lascia indifferenti, scuote e chiede una presa di posizione, produce una divisione: o con lui o contro di lui. Questo carattere di giudizio non può essere tolto alla fede cristiana; esso non si scaglia, come molti vorrebbero, contro singole persone, ma fa risaltare, per contrasto con le parole dei credenti e con la loro vita, l’adesione o il rifiuto verso la verità e il bene che sono in Cristo Gesù. Di fatto, questo carattere ha prodotto in ogni epoca cristiana, fin dalle origini, moti di persecuzione i cui effetti non hanno tardato a farsi sentire fino a produrre il sacrificio supremo, il martirio. La situazione culturale odierna, mentre conosce vaste regioni in cui il martirio viene perpetrato in forme e misure perfino superiori a tante epoche del passato, nel nostro Occidente presenta una modalità di rimozione che sposta da Cristo alla Chiesa il termine del rifiuto e del contrasto, sottraendosi al giudizio della verità. La responsabilità di noi credenti sta tutta nella capacità di ripresentare al vivo la verità di Cristo e la sfida che egli lancia attraverso la nostra testimonianza resa a quanti sono chiamati a incontrarlo.Per questo dobbiamo ripercorrere conclusivamente la connessione tra testimonianza e martirio, evidenziando la peculiarità di quest’ultimo.Uno sguardo alla teologia del martirio, alle sue fonti, alla sua storia, ai suoi modelli permette di coglierne il nucleo essenziale nella relazione personale con Gesù, vissuta come indissolubile e inalienabile, al punto di sperimentarla come più preziosa della vita terrena. Attorno a questo dato si raccoglie una ricca serie di elementi dai quali non è separabile il nesso intimo con l’esistenza credente ordinaria. Questa è segnata strutturalmente dal paolino «e non vivo più io, ma Cristo vive in me». Il credente ha trovato in lui la propria identità; il legame con lui costituisce la radice e il fondamento del suo essere, la promessa di vita piena, riuscita e definitiva, al punto che separarsi da lui sarebbe come finire di essere. Tutto questo, vissuto come costante dell’esistenza credente ordinaria, conduce spontaneamente a una fedeltà mantenuta a ogni costo. Il martirio è il coronamento della vita cristiana nella sua fondamentale e radicale esigenza di fedeltà al Signore.È importante osservare che nel congiungimento di “eventi e parole” che si compie nel testimone – il quale confessa e annuncia con le parole e con la vita ciò che egli è e ciò che egli crede – il termine greco che sta per testimonianza, ovvero martyrion, nel corso del II secolo diventa termine tecnico, cominciando a indicare il racconto sulla testimonianza del martire e il luogo che ne accoglie il corpo. Il termine rimanda così alla testimonianza muta, resa dal martire con i fatti, interpretata dal racconto e significata dalle reliquie.Nella prospettiva dei cristiani dei primi secoli, il martirio viene desiderato e preparato lungo una vita intera di dono, che rende pronti a sopportare tutto nel momento del combattimento supremo. Esso viene vissuto come un secondo battesimo, una nuova professione di fede che consuma e compie il primo battesimo; soprattutto, esso è suprema perfezione e perfetta carità, nella quale consiste il vero sacrificio. La sofferenza è il mezzo privilegiato dell’offerta; non è essa, però, in primo piano, per quanto non sia presa alla leggera. Scrive sant’Agostino: «Non è la pena che fa il martire, ma la causa»; non si tratta di esporsi al pericolo, ma di sopportare volontariamente la sofferenza che si presenta come inevitabile prezzo della fedeltà al Signore in un atteggiamento di pazienza, animati da un amore per Dio e per l’eternità che è più forte di ogni prova.Profondamente sentita nei martiri è l’unione stretta al sacrificio di Cristo, di cui come discepoli non imitano tanto i gesti quanto la persona, ultimamente nella sua passione; la loro è una imitazione vissuta nella Chiesa, in una carità che è una sola cosa con la fede. E il Padre accoglie l’offerta perché innanzitutto il credente ha accolto da lui il martirio come chiamata, dono e grazia. Nessuno può farsi martire da sé; ciascuno, piuttosto, può disporvisi e accoglierlo in rendimento di grazie. In questo modo, Cristo viene a rivivere nel martire il suo mistero pasquale, così che non sono i martiri a combattere, bensì Cristo in essi e con essi. Il contenuto della testimonianza dei martiri è la fede nella risurrezione dei corpi. Sta qui la specificità originaria del martirio cristiano.Nel martire si mostra con i fatti la verità cristiana, e si mostra innanzitutto agli stessi credenti perché siano confortati ed esortati [...].I cristiani di oggi sono chiamati alla medesima fedeltà delle origini e dei martiri di tutti i tempi [...]. In una ripresa conclusiva della Meditazione che papa Benedetto XVI ha tenuto all’apertura del Sinodo dei vescovi per il Medioriente, la nostra riflessione trova puntuale attualizzazione. Egli evidenzia il nesso tra la Theotókos e la Mater Ecclesiae con uno sguardo al capitolo 12 dell’Apocalisse, osservando che «solo tramite la Croce avviene il cammino verso la totalità del Cristo, verso il suo Corpo risorto, verso l’universalizzazione del suo essere nell’unità della Chiesa». Tale cammino si attua attraverso quella che chiama «la caduta degli dèi» [...]. L’immagine del drago che riversa un fiume d’acqua contro la donna in fuga per travolgerla, poi, permette di osservare che «la buona terra assorbe questo fiume ed esso non può nuocere. Io penso – dice il Papa – che il fiume sia facilmente interpretabile: sono queste correnti che dominano tutti e che vogliono far scomparire la fede della Chiesa, la quale non sembra più avere posto davanti alla forza di queste correnti che si impongono come l’unica razionalità, come l’unico modo di vivere. E la terra che assorbe queste correnti è la fede dei semplici, che non si lascia travolgere da questi fiumi e salva la Madre e salva il Figlio». La fede dei semplici è la stessa fede dei martiri, è cioè la fede dei testimoni, la fede di ogni tempo della Chiesa che chiede anche a noi di raccoglierne la fiaccola e di tenerla accesa con una fedeltà perseverante sino alla fine. Allora «le fondamenta della terra non possono vacillare se rimane ferma la fede, la vera saggezza».
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