mercoledì 10 settembre 2014
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Sono state affidate al benedettino Michel Van Parys le conclusioni del XXII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa «Beati i pacifici», svoltosi la scorsa settimana a Bose. Padre Van Parys (ne pubblichiamo per ampi stralci la relazione), di origini belghe, è egumeno dell’abbazia di Grottaferrata. Al convegno hanno preso parte 200 ortodossi, riformati e cattolici da tutto il mondo. Tra gli altri: il metropolita Athenagoras del Belgio, il vescovo Kliment di Krasnoslobodsk, i vescovi ucraini Filaret di Leopoli e Ilarij di Makariv; sono giunte inoltre delegazioni dalle Chiese di Serbia, Romania, Bielorussia, Germania, Bulgaria, Cipro, Grecia, America, Armenia. Per i cattolici erano presenti vari vescovi e il delegato del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani.Proviamo un disagio estremo, cent’anni dopo il genocidio armeno seguito da tanti altri nel corso del XX secolo, a parlare di pace, a constatare l’impotenza che ci afferra di fronte alle sofferenze di tanti bambini, genitori, nonni, nella drammatica urgenza delle settimane scorse e dei giorni scorsi nel Vicino e Medio Oriente e in Ucraina. Come parlare? Ma come possiamo non parlare, non riflettere e non pregare? Non ignoriamo che il cristianesimo, a partire dall’illuminismo, così come il giudaismo e l’islam, sono accusati d’intolleranza. Non possiamo eludere tale questione. Si è citata l’interpretazione allegorica praticata dai Padri della Chiesa; essa, se non altro, mostra che la Chiesa primitiva era pienamente consapevole del problema, e ha sviluppato un’esegesi che trasponeva la violenza fisica al livello del combattimento spirituale del cristiano contro il principe di questo mondo, il diavolo, padre della menzogna e omicida (cf. Gv 8,44). Ma forse oggi potremmo proporre al popolo di Dio anche un’altra tradizione patristica complementare, quella tipologica, che, ad esempio, inserisce i salmi nella storia della salvezza, leggendoli alla luce di un tipologia messianica. Non potremmo cercare insieme, noi Chiese ancora divise, un’interpretazione «cristica» dei salmi, della violenza che attraversa la Bibbia, dal martirio di Abele ad opera di suo fratello Caino alla guerra totale, escatologica, di cui ci parla il libro dell’Apocalisse (cf. Ap 12; 19,11-21; 20)? L’ira è un impulso necessario per l’aggressività, ma il Signore Gesù ci dà, a più riprese, l’esempio di un’indignazione, di un’ira, che non ha altro fine se non quello di neutralizzare l’ipocrisia o l’indurimento del cuore, personale o comunitario.  I racconti biblici e i salmi riflettono la pedagogia dello Spirito santo, parlano della pazienza di Dio che ci conduce per mano da là dove noi siamo, per farci entrare passo a passo nella salvezza che egli ci offre gratuitamente nel e attraverso il Verbo incarnato. Ci parlano anche, se non ancora di più, del nostro indurimento (cf. Sal 94 [95],9), della nostra resistenza a questa offerta della salvezza personale e comunitaria. Le parole «violente » ci ridicono incessantemente il cammino che dobbiamo percorrere: dal rifiuto del fratello al perdono del nemico. Dare un nome alle nostre passioni, ai nostri sentimenti di odio, ai nostri desideri è già una terapia. Dare un nome significa esorcizzarli, discernerli, guarirli. È bene dare un nome agli abissi del cuore umano peccatore. La Bibbia ci aiuta a prenderne coscienza. I Padri si sono concentrati soprattutto sulla pace interiore, quella del cuore. Quale è la sinergia del battezzato con la grazia? Come si realizza il lungo lavoro della conversione, della metánoia? Con grande realismo hanno riconosciuto che le virtù dell’anima, sempre con l’aiuto dello Spirito santo, indirizzano lungo la via dell’amore, preparano la deificazione. Hanno fatto ricorso, con discernimento, agli strumenti che le tradizioni filosofiche non-bibliche mettevano a loro disposizione per insegnare il cammino dell’amore, che irradia la pace, e per fornire «le armi» contro tutto ciò che ostacola la crescita dell’agape: l’orgoglio, l’invidia, la gelosia, l’angoscia, la collera, l’avarizia, i cattivi desideri… (cf. Mt 15,19; Mc 7,20-23). La pace, dono del Cristo e frutto dello Spirito santo (cf. Gal 5,22), deve manifestarsi nell’unità e attraverso l’unità della Chiesa e delle Chiese. Consideriamo come rivolto a noi oggi il problema posto dalla concisa affermazione del vescovo Ireneo di Lione a papa Vittore di Roma: «Il disaccordo (diaphonía) sul digiuno conferma l’accordo (homónoia) della fede». Al pari della santa Scrittura, la dottrina dei Padri della Chiesa deve essere accolta da ogni nuova generazione di credenti. Potremmo forse ampliare l’affermazione di Ireneo di Lione riproponendola in questi termini: «Il disaccordo sulle osservanze e la diversità delle formulazioni teologiche confermano la nostra unanimità nella fede»? Ritrovare la pace e l’unità della Chiesa per la quale il Signore Cristo ha versato il suo sangue sulla croce, non lo si può fare che a una sola e unica condizione: l’obbedienza  integrale delle chiese e dei credenti alla parola di Dio. Qual è il legame tra l’unità della Chiesa e la pace nel nostro mondo? Ci è parso che questo legame esista e che sia molto stretto. «Il vincolo della pace» può e deve placare i conflitti e le guerre di cui l’umanità è vittima… Le Chiese hanno un’enorme responsabilità nella promozione della pace in questo mondo. Non sarebbe anche il caso di togliere, o di non utilizzare più, gli anatemi presenti nei libri liturgici contro le altre Chiese? Le nostre Chiese hanno tutte accettato, quando ne avevano la possibilità, la «coercizione», il ricorso alla violenza, con o senza l’appoggio del «braccio secolare» per reprimere l’eresia, a motivo della sua diversa formulazione dogmatica. La politica ha abusivamente utilizzato la Chiesa, le Chiese, così come le Chiese hanno abusato della loro influenza sulla società. Quale sinfonia tra trono e altare, nel rispetto di ciò che spetta a Dio e di ciò che spetta a Cesare? Il problema che ci viene posto, e che resta attuale, è quello della responsabilità delle nostre Chiese e, in particolare, dei loro pastori e teologi, di de-costruire, attraverso una catechesi irenica, le immagini fittizie o reali dell’altra Chiesa. Come de-costruire queste immagini falsate? Certamente attraverso l’ascolto del racconto delle sofferenze comunitarie e personali dell’altro; poi, attraverso l’umile e paziente lavoro dell’investigazione storica; infine, con la metánoia, la conversione, assumendo il passato della «coercizione» morale o fisica attuata dalla mia Chiesa o dalla mia nazione. Riconoscere questo passato come proprio purifica la nostra memoria e ci conduce a chiedere perdono. Non si tratterebbe di una delle forme dell’amore per i nemici che tanto aveva a cuore Silvano del Monte Athos? Un primo passo in questa direzione sarebbe quello di rinunciare a riattivare la memoria delle ferite del passato. Non si tratta di negarle, perché le ferite cicatrizzate del corpo risorto di Gesù restano. Ci è sembrato che le Chiese siano chiamate a non lasciarsi sedurre dalla propaganda ideologica e manipolatrice dell’opinione pubblica, a trascendere le passioni nazionalistiche o identitarie. Le nostre Chiese sono chiamate a diventare dei laboratori della pace di Dio, a cercare con impazienza di purificarsi per ricevere dal loro Signore il dono dell’unità. È questa la condizione assolutamente necessaria per la credibilità della loro testimonianza dell’amore di Dio e della pace che egli dona loro, «perché siano una cosa sola, come noi» (Gv 17,11). Il 7 dicembre 2015 celebreremo il 50° dell’abolizione degli anatemi tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli. Ho un sogno… Perché il prossimo anno non canonizzare nello stesso giorno Paolo VI a Roma e il patriarca Athenagoras al Phanar? Sarebbe un segno che la loro santa amicizia continua a portare il frutto dello Spirito, la pace, nelle nostre Chiese. La speranza non delude!
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