martedì 17 marzo 2009
Da 50 nazioni 80 film anti Hollywood E le difficoltà creano nuove coproduzioni
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In nome di Barack Hussein Obama il cinema del resto del mondo si incon­tra a Milano per la diciannovesima e­dizione del Festival del cinema Africano, d’Asia e America Latina (dal 23 al 29 mar­zo). Un presidente degli Stati Uniti nato da papà keniano e cresciuto tra l’Indo­nesia e le Hawaii non poteva non marcare con la sua elezione anche la kermesse mi­lanese che ogni anno coinvolge cineasti da quei continenti dove fare un film co­sta moltissima fatica. E così tra le circa ottanta opere previste da oltre cinquan­ta nazioni, mai come in questa annata la parola d’ordine sembra essere cosmo­politismo. In altri termini, coproduzioni internazionali, joint venture tra diversi paesi e punti di contatto intercontinen­tali. Un esempio è l’anteprima italiana di Lon­don River, Orso d’argento a Berlino per la migliore interpretazione maschile di So­tiguy Kouyaté. Il film racconta dell’in­contro tra un uomo africano musulma­no e una donna inglese cristiana sullo sfondo degli attentati terroristici avve­nuti a Londra nel luglio 2005. La regia è di Rachid Bouchareb, parigino d’origini algerine. Africa-Europa, andata e ritor­no: il Vecchio Continente degli immigra­ti di seconda o terza generazione, tra ten­sioni, integrazioni mancate e rigurgiti xe­nofobi, fa da scenario a molte pellicole. Naturalmente non poteva che essere la Francia, co-produttrice della maggior parte dei lavori, il paese a raccontare il sentimento dell’emigrazione di chi è co­stretto a scegliere tra le radici lontane e la nuova identità. Un si beau voyage, Kham­sa, L’absence, Sexe, gombo et beurre salé raccontano tutti del ritorno, fisico o me­taforico, alle proprie origini africane. «E non è un caso – spiegano le direttrici artistiche Alessandra Speciale e Anna­maria Gallone – che il Maghreb sia la zo­na dell’Africa presente con il maggior nu­mero di film. Grazie anche alle relazioni economiche e sociali con gli altri paesi del Mediterraneo». Cosa che non si può dire per il resto del continente. Ma si sa che la crisi globale fa più male a chi non gode di ottima salute. E anche il festival ha dovuto farvi i conti: «In Africa già si produceva poco, ora, con la crisi, è an­cora più difficile. L’unica nota positiva è che l’Unione Europea riprenderà a fi­nanziare i paesi dell’ 'ACP', Africa, Ca­raibi, Pacifico. Una boccata d’ossigeno dopo il tracollo che stanno subendo le loro cinematografie». aSembra che in Eu­ropa, in tv e al cinema, qualcosa si stia muovendo, c’è più interesse, ma rimane un peccato che nonostante i successi nei festival più importanti, i film africani ven­gano totalmente snobbati in Italia, an­che se rappresentano una vera e propria alternativa alle solite cose nelle sale». U­no sguardo diverso, dal punto di vista del-­l’altro, ma anche storie diverse, che vivo­no molto più dell’attualità che della fan­tasia. Lo sfruttamento dei minori in In­donesia ( Jermal); una vita qualsiasi in un giornata qualsiasi in Palestina ( Eid Milad Laila e Of flesh and blood); il Sudafrica del dopo apartheid che deve fare i conti con le fragilità della nuova democrazia. Tra le sezioni speciali da non perdere la retrospettiva del regista kazako Darezhan Omirbayev e una panoramica di ap­profondimento sul canale all news arabo Al Jazeera. Un altro schermo per entrare in un altro mondo e in un’altra cultura che mai come oggi è così lontana e così vicina.
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