mercoledì 26 febbraio 2014
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La buona notizia è che ci siamo già passati, la cattiva è che l’esperienza maturata nei secoli è utile sì, ma fino a un certo punto. Città di Dio e Città dell’Uomo, legge naturale ed eccezione cristiana: nobili, gloriose categorie, in ampia misura ancora necessarie. Intorno, però, il contesto è mutato in modo drammatico e il punto interrogativo posto alla fine del titolo sta lì a dimostrarlo. “Una fede per tutti?” è infatti la domanda che guida i due giorni di riflessione proposti a Milano, tra ieri e oggi, dalla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale secondo una consuetudine che risale al 1991, quando la posta in gioco era rappresentata dal “caso Europa”. Prospettiva ancora valida, ricorda in apertura dei lavori il vescovo di Piacenza-Bobbio, monsignor Gianni Ambrosio: da un lato il Vecchio Continente è sempre più preda di una visione emotiva dell’agire umano, dall’altro non non esita a confidare in una tecnocrazia che dà sostanzialmente per archiviata la questione religiosa. Ma l’Europa non è il mondo, così come quello che accade nel cristianesimo non è si presta a essere liquidato secondo gli schemi correnti. Che sono quelli di una triste visione mercantile della realtà, esito perverso di un confronto con il sacro comunque impossibile da evitare. La denuncia del preside della facoltà, monsignor Pierangelo Sequeri è nettissima: «Altro che Nietzsche, i veri maestri del nostro tempo sono Stirner e Bataille. Estetica del singolare ed erotica del potenziale: ad avere l’ultima parola è sempre l’Unico nella sua smania di piena realizzazione. Sono atteggiamenti che purtroppo rischiano di contaminare anche la pratica religiosa. Per il cristiano, però, solo Dio può essere adorato, solo il prossimo può essere amato. E non c’è logica accettabile al di fuori di quella, niente affatto manageriale, dell’agape.Dove si smette di operare, di gestire, per entrare in un’altra dimensione».È il tema centrale dell’intervento di Isabella Guanzini, tra prospettiva storica e apertura alla contemporaneità. Si torna al 1929, quando nel Disagio della civiltà Sigmund Freud individuava nel “comandamento dell’amore” l’unico antidoto alla disumanizzazione, salvo postularne l’impraticabilità. «Il principio-agape non è un’astrazione – ribatte la studiosa –, esprime al contrario una vocazione messianica e, di conseguenza, non può fare a meno di assumere forma storica, plasmando il tempo in cui vivono i credenti. Per essere più precisi, l’agape è ciò che porta a compimento la rivelazione». Come questo si si verificato in passato è ormai abbastanza chiaro. Il filosofo Sergio Givone insiste sulla differenza che separa il tragico greco (per cui si espia la colpa di stare al mondo) e il tragico cristiano (per cui la colpa sta nella responsabilità personale), mentre monsignor Sergio Ubbiali si sofferma su un altro passaggio decisivo, che coincide con l’invenzione di uno specifico “linguaggio cristiano” in epoca patristica (qui l’elemento fondamentale è l’insondabile grammatica dell’Incarnazione). Tocca poi a Marco Rizzi, docente di Letteratura cristiana antica alla Cattolica di Milano, ripercorrere la varietà di soluzioni offerte dagli stessi Padri, in una fitta alternanza tra inclusione ed esclusione rispetto al principio normativo espresso dalla tradizione civile. Il punto d’approdo è rappresentato dal pensiero di Agostino: «Per lui – spiega Rizzi – il messaggio cristiano si fa necessariamente legge, proprio perché è l’unico a volgere il costume dell’uomo nella direzione che gli può garantire la salvezza».Una posizione ancora attuale? A fornire il quadro meno incoraggiante sono gli osservatori della realtà odierna. Il sociologo Luca Diotallevi, per esempio, lamenta la sostanziale trasformazione del cattolicesimo italiano in una “religione a bassa intensità”, con responsabilità ben distribuite fra autorità centrale e laicato. Gli fa eco monsignor Luca Bressan, che non si accontenta di elencare le occasioni mancate e invita a rilanciare la sfida di una Chiesa nuovamente capace di farsi apostolica: radunando i dispersi, riscoprendo la missione, dando nuova consapevolezza ai sacerdoti. Orizzonti impegnativi, anche se per cominciare si potrebbe ripartire dalla famiglia. Il suggerimento viene dalle conclusioni che saranno avanzate oggi da monsignor Giuseppe Angelini, teologo finissimo e, proprio per questo, uomo di grande concretezza. D’accordo, nella società secolarizzata non potremo più adoperare la formula di Agostino, né rifarci all’ottimismo di Tommaso d’Aquino, per il quale la legge di natura fornisce basi sufficienti al convivere umano. Se il campo da attraversare è quello della mediazione, è sulla mediazione per eccellenza che occorre puntare: genitori e figli, il nodo delle generazioni portatore di per sé di una consistenza simbolica che rimanda all’origine. Sarebbe un modo, magari aurorale, per dare testimonianza di una fede davvero per tutti, senza più punti di domanda. «Ma per questo abbiamo bisogno di conversione – conclude Angelini –, non di conferme nel luogo comune».
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