mercoledì 14 gennaio 2015
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Succede all’aeroporto, un bambino di neppure un anno è intento a giocare con la cinghia del bagaglio a mano dei suoi. Invano la mamma cerca di propinargli qualche boccone di muffin; dopo un attimo di incertezza il piccolo scarta il cibo e ritornando al tira e molla della cinghia, si rituffa concentrato nelle sue ricerche. Come se in un’estasi giocosa avesse sentito molto più forte il desiderio di corrispondere al richiamo magico di un oggetto che in quel momento aveva perso tutta la sua banalità.  A osservare curiosamente la scena è Steven Connor, accademico di fama all’Università di Cambridge, che uno immagina più avvezzo ai saggi attorno ai mostri sacri della letteratura inglese da Dickens a Joyce a Beckett piuttosto che alle riflessioni attorno a spilli, pipe, pettini e pillole, sebbene con annotazioni linguistiche, filosofiche e storiche. È lui a raccontare del bimbo esploratore nel prologo di questa acuta e brillante ricerca intitolata Effetti personali. Vite curiose di oggetti quotidiani  (Raffaello Cortina editore; pp. 290) esplorazione dotta, divertita e insolita dei nostri rapporti con alcuni degli oggetti di cui ci circondiamo e della loro solo apparente banalità. Cose di uso comune, che coabitano la nostra vita, di cui ci è difficile fare a meno: bottoni, elastici, graffette, per esempio, nastro adesivo, occhiali, borse, giornali, chiavi… che in gran parte teniamo in tasca, maneggiamo e agitiamo inconsapevolmente con gesti che ci tranquillizzano e rassicurano, ci stuzzicano o ci permettono di scaricare ansia e irrequietezza. Quelli di cui si occupa Connor sono oggetti il cui uso va al di là della loro funzione – un fazzoletto è molto più di un rimedio igienico alle necessità del naso, un pettine più di un arnese per ravviare i capelli – «oggetti magici», come li definisce, che sembrano includerci in se stessi «come se vi fossimo in qualche modo immaginati», così come una tazza da tè ci chiede di essere presa per il manico o come un bicchiere da brandy si offre per essere impugnato da sotto e lievemente cullato. Oggetti che ci fanno lavorare, che si offrono alla conoscenza di sé e ci permettono di addentrarci nella nostra, performando modelli di pensiero e comportamenti.  Le nostre vite sono piene di borse? Il fatto è che «nessun oggetto sa rappresentare meglio delle borse il nostro senso della relazione tra interno ed esterno – racconta Connor –, portare ed essere portati è una peculiarità della nostra specie e questo spiega l’interesse e persino la devozione femminile per le borse» (mentre gli uomini prediligono le tasche). E i bottoni? Umilissimi oggetti di trastulli e insieme mediatori di meditazioni, offrono distrazioni, agganci e insieme decoro e sicurezza così come gli occhiali, istrionici, modaioli e simpaticamente ironici sono i nostri specchi dell’anima, da brandire come strumenti di gioco e messa in scena, teatrali nel gesto di essere tolti e messi in continuazione.  Antico e contemporaneo nei suoi mille dispiegamenti – abbandonato, perso, rubato, dato in prestito… – il fazzoletto, specie se stirato e immacolato, è una delle esperienze più consolatorie e di comfort che si possano provare. Zigzagando tra l’infantile appiccicosità del nastro adesivo e la dolcezza narcotica delle caramelle, inseguendo la memoria materiale dell’elastico e l’inclinazione alla metamorfosi delle graffette, analizzando fascino e potere delle chiavi e il loro rischio di essere continuamente perse, dunque sbirciandoci in tasca e nei cassetti, Connor porta alla luce il piccolo mondo di futili esigenze che ci rappresenta, gli accessori necessari che provano la nostra esistenza in vita ma sui quali riflettiamo troppo poco.
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