giovedì 11 agosto 2022
Verso il convegno per i quattrocento anni che si svolgerà in Vaticano a novembre: in un libro di Pizzorusso la prima storia complessiva di Propaganda Fide
Il palazzo di Propaganda Fide in piazza di Spagna a Roma

Il palazzo di Propaganda Fide in piazza di Spagna a Roma - Guido Montani/Ansa

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L’ufficio della Curia romana che guida le missioni cattoliche nel mondo ha perduto da più di cinquant’anni l’originaria denominazione di Sacra congregazione 'de Propaganda Fide', con la quale era nato nel 1622, quattro secoli fa. La riforma di Paolo VI nel 1967 lo trasformò in Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e quella recentissima di Francesco (marzo scorso) ha semplificato ulteriormente chiamandolo Dicastero per l’evangelizzazione. Ma il libro di Giovanni Pizzorusso che segnaliamo al lettore si intitola semplicemente Propaganda Fide, sottotitolo 'La Congregazione pontificia e la giurisprudenza sulle missioni' (Edizioni di storia e letteratura, pagine 427, euro 48). È vero che riguarda la storia passata e non la realtà presente, ma se nomina sunt consequentia rerum, come insegnava il diritto romano, se i nomi derivano dalle cose, l’antica e gloriosa definizione sembra ancora molto più pregnante e significativa delle dizioni contemporanee. Fu nella seconda metà del Cinquecento, dopo la conclusione del Concilio di Trento e la riorganizzazione disciplinare e teologica della Chiesa, che il papato avvertì l’urgenza di riprendere il controllo delle missioni. Le scoperte geografiche e l’apertura delle grandi rotte oceaniche avevano posto l’Europa in contatto con popoli, culture e religioni sconosciuti, alcuni altamente evoluti, in Estremo Oriente, altri arretrati e semiprimitivi, nelle due Americhe. Inoltre mezza Europa si era staccata ed era passata alla Riforma, l’est europeo apparteneva all’Ortodossia e il Medio Oriente all’Islam. Tre quarti del mondo, insomma, dovevano essere evangelizzati, o rievangelizzati. Un’impresa immensa, che il debole papato pretridentino aveva lasciato all’iniziativa spesso disordinata degli ordini religiosi, fra i quali si distingueva lo slancio straordinario della Compagnia di Gesù, nata nel 1540 e già attivissima. Divenne evidente inoltre un secondo nodo da sciogliere. I diritti di patronato sulla Chiesa incautamente concessi alle due grandi monarchie iberiche prima dell’assise conciliare avevano privato Roma del controllo sull’evangelizzazione delle terre nuove, con la conseguenza che l’iniziativa missionaria, subordinata ai disegni di Madrid e Lisbona, stava perdendo la finalità originaria a vantaggio di impropri obiettivi politici e coloniali. Ma recuperare un ruolo dopo averlo perduto è sempre difficile. Solo nel 1622, dopo che erano naufragati diversi precedenti tentativi, Gregorio XV riuscì finalmente a dare vita a quella che sarebbe diventata la più celebre istituzione pontificia dell’età moderna, appunto la Congregazione 'de Propaganda Fide'. Ad essa Giovanni Pizzorusso, riordinando suoi precedenti studi, dedica ora questa rigorosa ricostruzione istituzionale, alla quale seguirà un secondo volume relativo agli aspetti culturali della sua attività. Dotata di cospicui finanziamenti e sistemata nello splendido palazzo di Piazza di Spagna che occupa tuttora, Propaganda Fide divenne ben presto il terminale obbligato dello sterminato reticolo delle missioni cattoliche nel mondo. In realtà, nonostante il patronato statale e il monopolio dei religiosi, la Santa Sede non era mai stata del tutto esclusa dalla nuova realtà coloniale e il papato era sempre rimasto l’istanza suprema a cui ricorrere per risolvere i frequenti contenziosi inerenti la vita religiosa concreta, in particolare in materia sacramentale e liturgica. Ciò che era sfuggito a Roma era il controllo generale del mondo missionario, delle linee politiche che dovevano guidarlo e del personale che doveva gestirlo in loco. Propaganda sorse per rimediare a tutto ciò, per liberare l’opera evangelizzatrice dalle ipoteche politiche e riportarla sotto l’egida della Santa Sede. Doveva cessare poi la pessima abitudine di scaricare nelle missioni il personale che era fallito nei conventi europei. La missione era un’impresa difficile, delicata, doveva essere affidata a uomini di qualità, non agli scarti. Chi era fallito vicino a casa, sarebbe fallito ancora più miseramente lontano da casa, provocando danni enormi. Inoltre, in Estremo Oriente i missionari erano entrati in contatto con culture evolute, popoli prima sconosciuti, altre e diverse religioni. In Cina, India, Indocina, Giappone, il loro impegno richiedeva metodologie nuove, che mettevano in crisi i criteri tradizionali, aprivano crepe pericolose nel diritto canonico e richiedevano ponderate valutazioni. In America i gesuiti stavano avviando nelle sperdute boscaglie del Paraguay, presso popolazioni primitive, l’inedito esperimento delle Reducciones, che doveva tenere insieme finalità di evangelizzazione e rischiose istanze politico-militari. La missione, insomma, era cresciuta enormemente in pochi decenni e stava diventando una sorta di terra di nessuno, dove l’eccezione si sovrapponeva alla regola e le norme perdevano di certezza. C’erano rischi seri per l’unità della fede e della disciplina cattolica, appena restaurate dal Concilio tridentino. Solo Roma, la suprema autorità pontificia, poteva rimettervi ordine e riprenderne le redini. Occorreva far convivere l’uniformità del cattolicesimo post-tridentino con la pluralità delle culture, dei riti, delle lingue, delle credenze, delle religioni segnalate dai missionari in azione. E bisognava anche conciliare la rigida cultura teologico-canonistica del personale curiale romano con la «fantasia creatrice» del personale che agiva in partibus e si rendeva conto che fuori dell’Europa cattolica il cristianesimo era una religione straniera, sconosciuta, che doveva adeguarsi alle regole, alle culture, al modo di vivere degli altri, e non pretendere che accadesse il contrario. Lo stesso diritto canonico ne fu profondamente condizionato: lo ius missionariumdivenne una sorta di regno dell’eccezione rispetto alla rigidità delle regole tridentine. La Congregazione si dotò di due strumenti operativi che ne hanno accompagnato il lungo cammino: la Tipografia poliglotta e il Collegio urbano, sorti rispettivamente nel 1626 e 1627. La Tipografia divenne celebre e invidiata in Europa per la capacità di produrre pubblicazioni nelle lingue e negli alfabeti più incredibili, mentre il Collegio urbano, tuttora in vita (non va confuso con il Collegio romano della Compagnia di Gesù, esistente a Roma dal 1551), nacque dalla necessità di poter disporre di missionari di sicura obbedienza e fedeltà pontificia, preparati facendo affluire a Roma giovani prevalentemente dal nord Europa e dal Levante, ma anche da aree più lontane. La qualifica di 'missionario apostolico' distingueva e accreditava il missionario, munendolo della copertura della Congregazione. Propaganda Fide divenne così lo snodo di uno straordinario scambio politico e culturale con i popoli nuovi che fece di Roma il terminale europeo di tutti gli 'esotismi' con i quali si entrò in contatto all’inizio dell’età moderna. Roma e la Santa Sede mantennero grazie ad essa una posizione di centralità nel mondo di allora, al pari delle capitali dei grandi imperi coloniali: Lisbona, Madrid, Parigi. I suoi poteri furono limitati solo nel XX secolo, prima dagli interventi di Pio X e Benedetto XV e poi, dopo il Vaticano II, dalla riforma di Paolo VI cui si è accennato. Questo studio minuzioso e puntuale di Pizzorusso, la prima storia complessiva della Congregazione, anticipa il convegno storico che si svolgerà in Vaticano nel prossimo mese di novembre per celebrare degnamente il quarto centenario della sua fondazione.

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