sabato 15 febbraio 2020
Partendo dalla sua storia personale, Luca Miele racconta l’incontro che gli ha cambiato la vita con The Boss. Un’esistenza scandita al ritmo di musica. L’eredità inestimabile del rock
Bruce Springsteen a San Siro (Milano) nel 2018

Bruce Springsteen a San Siro (Milano) nel 2018 - Fotogramma

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Danni e patrimonio genetico. Pene inflitte e amnistie edulcorate. Cosa lasciano i padri ai figli? Dove può arrivare il miglior padre del mondo e quanti disastri può cagionare il peggiore? E il bello è che non esiste migliore o peggiore in una categoria che sfugge a qualsiasi regola. L’idea di base è che un genitore, il patriarca fatto di pantofole, grugniti, rimproveri e stitici sorrisi possa fare meno danni possibile e nel farli sia in grado di attutirne gli effetti. Non ci sono formule e non ci sono regole.

Interessante, sincero e illuminante è il libro di Luca Miele Mio padre odiava il rock’n’roll (Arcana, pagine 111, euro 13,00). Interessante perché ha valore di memoria nel raccontarci come erano i padri, quelli poco avvicinabili, in un mondo dove i bambini erano bambini e dovevano tenersi all’interno di uno steccato fatto di Super Santos, camerette, silenzi e musica. Sincero perché Miele, giornalista di Avvenire, non usa giri di parole e ci racconta di come, crescendo, l’io narrante di questo libro autobiografico riceva delle folgorazioni laddove il padre ha seminato solo distanze fatte di lavoro, sofferta lotta per il pane e cancro ai polmoni. Infine è illuminante in quanto ci descrive il desiderio di idoli di un ragazzino che ha bisogno di smarcarsi da tutto ciò che sa di paterno.

Per Miele l’evento determinante è l’incontro con Bruce Springsteen, il Boss, l’ascella più famosa del mondo del rock, un uomo a sua volta passato dal tormento di essere stato figlio in una realtà difficile e complessa. Ed è la musica a scandire questo libro. Ogni capitolo parte da un esergo colto nei versi di canzoni dei vari Lou Reed, Prince, Tom Waits, Elvis Presley, i Nine Inch Nails, i Clash, John Lennon, Bob Dylan, Johnny Cash, gli Almamegretta, Pink Floyd e soprattutto The Boss, colui che con la potenza della sua chitarra e la forza evocativa dei suoi testi trasforma l’esistenza di un ragazzo portandolo a essere un fanatico della musica e di Springsteen in particolare.

Inoltre Miele non si limita a descrivere sensazioni, passioni e vicende bensì colloca il tutto in una realtà sudista quasi controculturale rispetto ai canoni delle generazioni del tempo in Italia. I ragazzi del Sud sembrano immuni ai cicli, alle mode e all’accelerazione di un progresso che corre verso il deragliamento eppure condividono con i giovani della loro generazione i sogni e i desideri. Solo che sogni e desideri a volte sono racchiusi in quattro mura.

Quelli della casa dove il pater esercita il suo dominio incontrastato e dove il genitore assolve all’onere di essere sentinella, custode, carceriere e addetto ai vettovagliamenti. Miele ci parla di una famiglia napoletana che vive nel foggiano. I due lati di quella fascia ventriera che stringe l’Italia all’altezza delle reni. Due mondi sulla apparente stessa linea di demarcazione, ma in realtà con una storia, un vissuto e una cultura diametralmente opposte. Napoli è l’arte, la creatività e l’internazionalizzazione. Il foggiano è quell’interregno dove si fa fatica a capire a quale realtà si appartiene, un incavo in una Puglia smerigliata già di suo che vede i dauni come corpi estranei scivolati giù dall’Appennino.

Luca Miele ha poi una dote, nel narrare. Un senso dell’ironia che riconduce ogni considerazione sotto la sua giusta luce. Parla del mondo del rock fatto di vecchi rocker ultrasettantenni, almeno quelli che resistono, perché in molti sono già morti: «Elvis Morto. Jimi Hendrix morto. Jim Morrison morto. Janis Joplin morta. Lou Reed morto. Joe Strummer morto. Johnny Cash morto. David Bowie morto. Kurt Cobain, persino lui, morto. Il rock? Diciamoci la verità, è un cimitero. O un ospizio. Roba da sopravvissuti. Roba da terza guerra mondiale. Springsteen, 70 anni. Patti Smith, oltre 70. Dylan, quasi 80. I Rolling Stones? Allegri vecchietti».

Ma alla fine la paternità è una ruota o meglio una catena dove ogni anello si fissa al precedente. E uno dei capitoli più sentiti del libro è la descrizione dei figli di quell’uomo amante della musica che a sua volta è stato figlio di un padre che odiava il rock’n’roll. E lì l’ironia lascia il passo a un senso di felicità per i piccoli gesti come l’accompagnare a scuola i propri figli e ricevere, in zona Cesarini, un bacio con tanto di braccia allacciate al collo.

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