venerdì 16 maggio 2014
​Luca Panichi, 45enne ex campione di atletica, oggi fa l’allenatore e lotta contro il cancro: «Ho scoperto che il male fisico non è mai totale assenza di bene. La fede, la mia famiglia e lo sport sono le mie medicine. A chi è malato dico di affrontare la propria corsa con gli occhi rivolti al cielo».
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«Il nostro carattere è come un diamante, è una pie­tra ma ha un punto di rot­tura… ». È una delle tante perle di saggezza che ha lasciato in eredità al mon­do dell’atletica Pietro Mennea, prematuramente scomparso il 20 marzo 2013, a sessant’anni. Luca Panichi di anni ne ha 45, e fin da bambino non ha mai smesso un solo giorno di correre. «Ho ini­ziato nel 1979 a Rufina, il paese alle porte di Firenze dove sono nato (dal 1995 risiede a Montevarchi) e per trent’anni ho parteci­pato a tutte le gare possibili, nazionali e in­ternazionali, tra i 1.500 e la maratona». Nel­lo score del “gigante buono” (è alto 1 metro e 92 centimetri) dell’Assi Giglio Rosso, «la mia prima società sportiva», un titolo euro­peo a squadre vinto nel 1992, la stagione della consacrazione del «talento Panichi». Seguono la discesa sotto i 30 minuti (29’ e 52) nei 10 mila metri, la Fiaccola d’Argento come miglior atleta toscano e il primo po­sto nella classica “Notturna di San Giovan­ni”, «della quale - dice fiero - , detengo il re­cord ancora imbattuto. Neppure i keniani ci sono riusciti a superarlo». Ma l’apoteosi, l’ha sperimentata correndo sotto i grattacieli della Grande Mela, alla Maratona di New York del 2001: 47° assoluto e 5° classificato degli italiani. «Un piazzamento prestigio­so e una girandola di emozioni incredi­bili. Si gareggiava poche settimane do­po l’11 settembre e non dimenti­cherò mai l’affetto dei newyorkesi che ci ringraziavano solo per il fat­to di essere lì con loro. All’arrivo ero sfinito, ma felice e commos­so. Il primo pensiero andò a quelle migliaia di vittime inno­centi dell’attentato alle Torri Ge­melle e poi a mio zio Giancarlo che era stato il mio primo gran­de tifoso, morto proprio nel ’92 quando cominciavo a fare risul­tati importanti». Dopo New York, un altro decennio di allenamenti massacranti e di successi: «Soldi sem­pre pochini, come è nel destino di chi fa atletica, ma soddisfazioni tante». Tutto questo fino al fatidico punto di rottu­ra: la malattia. «Il 12 dicembre 2012 mi han­no diagnosticato un endocarcinoma ai pol­moni con metastasi alla schiena. I medici mi hanno detto chiaro e tondo che la mia a­spettativa di vita è di cinque anni e ho solo il 5% di possibilità di guarigione». Una “con­danna” che avrebbe fiaccato chiunque, ma non Luca che, dopo quattro cicli di chemio e dieci di radioterapia («avevo perso 14 chi­li in una settimana»), alla cura biologica, a base di Crizotinib, ha continuato ad abbi­nare l’imprescindibile e vitale attività fisica. «Faccio spinning tutti i giorni e corricchio 3-4 volte alla settimana. Al campo sto sem­pre in movimento, faccio parte dello staff tecnico della Nazionale dei 100 km e seguo gli allenamenti di una decina di ragazzi tra i 14 e i 18 anni». L’età dei suoi due figli, Irene (18enne, promessa dei 2mila sie­pi) e Federico (14enne cadetto che già primeggia in Toscana) che lo hanno appena accompa­gnato a Roma all’udienza da papa Francesco. Una famiglia di sportivi i Pa­nichi, completata da mamma Isadora Meucci, ex ginnasta azzurra: «Mia moglie è il pilastro, il “si­lenziatore” che con uno sguardo comprende e risolve i momenti più difficili di questa mia sfida».Una sfida in cui non è mai da solo. «La mia “lepre”, nel gergo del­l’atletica la guida che indica il passo, oltre alla famiglia e lo sport è una fede ri­trovata. Ora ho il tempo e la sete necessaria per bermi un sorso alla volta la quotidianità che è fatta di piccole grandi cose, come leg­gere una pagina del Vangelo o allenarmi stringendo tra le mani la corona del rosario, arrivando di corsa fino al Santuario della Madonna di Rugiano…». Un luogo di devo­zione, ma per Luca anche della “memoria”: «Davanti alla chiesa di Rugiano, l’8 settem­bre del 1944, mia nonna morì calpestando una mina piantata lì dai tedeschi. Quando ho saputo della malattia, è il primo posto in cui sono andato, e lì ho ricominciato a pre­gare ».Una fede incrollabile lo aiuta a con­vivere e a correre spalla a spalla con il can­cro, come testimonia anche il rapporto che ha voluto stringere con l’ex allenatore del Barcellona Tito Vilanova («gli scrissi una let­tera e lui mi rispose subito») , che invece la sua partita contro la malattia l’ha appena persa dopo averla combattuta con grande forza. La giornata di Luca è scandita dalla preghiera, dall’atletica e dal lavoro come guardia giurata allo stabilimento fiorentino di Prada. «Devo ringraziare la Fidelitas di Bergamo che mi ha mantenuto il posto e fatto capire che esistono ancora realtà la­vorative (con 1.500 dipendenti) in cui non si è solo dei numeri. Uno stimolo in più per affrontare il mio turno di 7 ore che è diven­tato quello della mattina, così al pomerig­gio posso andare al campo ad allenare». Nel­la squadra di Luca Panichi c’è anche la neo­campionessa italiana della 100 km Barbara Cimmarusti. «Barbara è eccezionale, lavo­ra in fabbrica e si allena, a 42 anni è ancora la più forte nella 100km. Seguo anche Anna Spagnoli che fa 1 ora e sedici sulla mezza maratona. E poi ci sono i “piccoli”, ai quali ricordo sempre che prima viene la scuola, poi se c’è la passione e la voglia di sudare senza ambire ai milioni del calcio, allora questo è lo sport giusto per loro».  Uno sport che non ha nessun timore a de­finire «malato», mettendo in guardia i gio­vani.  «L’atletica non è solo il mio sport, ma lo stile di vita che mi sono dato. A Tirrenia avevo la loro età quando mi proposero una “cura programmatica” con la promessa che sarei sceso di 30 secondi in un lampo. Cre­scendo mi hanno offerto farmaci, emotra­sfusioni e anche l’Epo, ma ho sempre rifiu­tato, consapevole di far parte della forma­zione dei “campioni puri”. Chi sono? Quel­li che come me hanno sempre detto no agli aiutini e sono andati avanti solo ed esclu­sivamente a pane e allenamento duro e co­stante. Posso indicarne almeno tre di que­sti campioni puri, per i quali posso mette­re la mano sul fuoco: il mio amico fraterno Stefano Mei, uno che a 16 anni sui 3.000 me­tri faceva il record europeo (8,’08), il gran­de Pietro Mennea - che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente - e Sara Si­meoni. Di altri atleti e di certe situazioni “torbide” che ci sono state e che accadono ancora nell’atletica, non parlo, ma solo per­ché non posso permettermi un buon avvo­cato… Di sicuro, la mia malattia non c’en­tra niente con il doping, non so neppure cosa sia». Ciò che sa Luca oggi, è che «la vita di ognu­no spesso è un cassetto chiuso che va aper­to. Il male fisico non è mai totale assenza del bene e ognuno di noi ha il dovere di af­frontare con coraggio la propria corsa, con gli occhi rivolti sempre al cielo».
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