venerdì 4 febbraio 2011
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Le forme della corruzione sono molteplici – e dunque la metafora dell’Idra è quanto mai appropriata. Possiamo indicarne alcune: ostruzione, estorsione, malversazione, falsificazione di documenti, prevaricazione, depravazione, concussione, intimidazione. Oltre alle forme, ne esistono anche di generi diversi: clientelismo, nepotismo, favoritismo, traffico di influenza. L’elenco è aperto. Ed è degno di nota, va detto subito, che la parola "corruzione" ci induca immediatamente a pensare a queste pratiche, anche se esistono altre accezioni del termine riferite al mondo naturale (corruzione come putrefazione di un frutto o infezione di un organismo) e al mondo degli artefatti (corruzione come degradazione di documenti o deterioramento di un prodotto). Se, pronunciando questa parola, pensiamo subito a una deviazione dell’azione umana, è perché essa designa qualcosa che ci preoccupa e che ci mette in grave stato di inquietudine. Il tema è molto vasto e ha già meritato la riflessione di numerosi pensatori, ansiosi di formulare i fondamenti etici di un universo finalmente libero da questo flagello. Il mio intento qui è di occuparmi di un solo aspetto del problema; si tratta però di un aspetto maggiore che è quello a cui si pensa spontaneamente quando si pronuncia la parola "corruzione": quello che ha luogo attraverso il danaro, o che passa attraverso uno scambio di servizi che garantisce benefici finanziari o vantaggi sociali in grado di permettere l’accesso a beni a cui si ambisce. È importante soffermarsi sulla definizione proposta dall’Ong Transparency International: la corruzione consiste nell’abuso a fini privati di un potere conferito da un’istituzione. Definizione interessante perché identifica un aspetto essenziale del problema: ciò che scaturisce dalla sfera pubblica o da quella collettiva è considerato fuori del circuito mercantile, interdetto a un’operazione di profitto individuale (il che non vuol dire fuori dell’ordine economico, visto che tutte le istituzioni o organizzazioni, comprese quelle pubbliche, vengono gestite e presuppongono investimenti. È evidente). Per comprendere il rapporto pubblico/privato, vediamo qualche esempio di abuso: profittare della propria posizione di eletto per favorire un commercio a beneficio di parenti o di complici; profittare della propria posizione di funzionario per ottenere vantaggi da parte di un legittimo richiedente di servizi amministrativi; distogliere fondi o beni di un’azienda per uso personale (corruzione attiva) o accettare di non opporsi a un’operazione del genere a favore di terzi (corruzione passiva). In tutti questi casi, è chiaro che c’è scambio. In compenso, non si parla di corruzione quando si tratta di uno scambio fraudolento tra privati, perché in quel caso si tratta di furto; o intimidire un/una collega per desiderio di imporre il proprio punto di visto: questo è quel che si chiama abuso di potere. La corruzione propriamente detta sembra sempre legata a un rapporto illegittimo tra sfera istituzionale (statale o meno) e interessi particolari. Resta da capire come definire questo tipo di transazione, che cosa ne costituisce la molla, quali tipi di relazioni umane ne traggono vantaggio. Ecco la mia ipotesi: ciò che è in gioco è il rapporto di dono ma in forma pervertita, cioè sotto una forma che, in maniera costante, opera un cortocircuito tra scambio generoso e scambio remunerato. (...) Gli scambi di doni sono patti il cui rispetto esige la più grande coerenza etica. Il rapporto di dono non ha dunque nulla in sé che predisponga alla corruzione. Lo abbiamo detto: il problema nasce dall’irruzione del dono tradizionale e dal suo "abuso" nei rapporti di scambio così come sono definiti dal contratto moderno. Il problema è nella confusione perversa che si crea tra i due generi. Il contratto moderno è l’erede del contratto così come è stato definito da lungo tempo dal diritto romano. La questione è immensa. Ci basti ricordare qui qualche tratto fondamentale del contratto di vendita che si oppone punto per punto allo scambio di doni: prima di tutto, i beni scambiati devono essere definiti in qualità e quantità e il loro prezzo deve essere fissato da un accordo reciproco; essi sono scelti dall’acquirente. Secondo, i beni devono essere consegnati in un tempo determinato e il contratto dura per un periodo convenuto. Terzo, l’obbligo reciproco è strettamente giuridico e il suo mancato rispetto comporta sanzioni legali. Quarto e ultimo, anche se i rapporti tra i contraenti sono positivi, non è nella natura dei beni scambiati di rappresentare la persona stessa del venditore. Dunque, nel rapporto mercantile si scambiano beni e si cerca di restare neutrali; nel rapporto di dono, si scambiano simboli e, per loro tramite, si creano legami sociali. (...) Se si dà un’occhiata alla carta mondiale del livello di percezione della corruzione, sembra evidente che si tratta di una carta della virtù pubblica dominata dal mondo scandinavo e anglo-americano. È tuttavia in questi stessi Paesi (prima di tutti gli Stati Uniti), che il neocapitalismo ha inventato le forme più aggressive e in cui i mercati finanziari hanno trovato le tecniche più sofisticate (come quella dei derivati) per generare profitti colossali sfuggendo a ogni regolamento e tassazione. Che dire del sistema delle lobby statunitensi che permette, in piena legalità, di investire milioni di dollari nelle campagne dei partiti politici per orientare le decisioni legislative dei rappresentanti? Legalizzare metodi del genere non significa rendere virtuoso ciò che, nei Paesi che hanno preso i voti più bassi, continua a essere considerato come corruzione? Quale dei due è il sistema più corrotto? Il mappamondo della virtù potrebbe essere anche, almeno in parte, quello dell’ipocrisia. Infatti, dove si situa la corruzione più grande e l’ingiustizia peggiore? Nel regalo discreto accettato da un piccolo funzionario di un Paese africano o del Medio Oriente in una rete chiusa di racket, oppure nei miliardi di dollari che – almeno per certi tipi di investimento – transitano senza controllo tra i grandi mercati borsistici e la finanza globalizzata e capaci, come nel 2008, di mandare in rovina interi Paesi? È anche in queste filiere di opacità che si insinuano gli enormi capitali della finanza mafiosa. La corruzione che affligge il terzo mondo è un intreccio di tradizioni legate alle forme della reciprocità, alla miseria economica e all’assenza di deontologia amministrativa. La corruzione nei Paesi sviluppati, oltre a non ignorare le pratiche della reciprocità, tende soprattutto a conferire una forma legale a questi abusi, a renderle impercettibili – ma, cosa grave sopra ogni cosa, ubbidisce a una sete profondamente nichilistica di dominazione e di avidità.
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