venerdì 24 febbraio 2017
Roberto nel 2010 ha perso il suo bambino: «Pietro aveva sei anni Io, fumavo e pesavo 115 chili, poi un giorno mi ha “mandato” delle scarpe d’atletica e per lui ora corro anche le ultramaratone
Roberto Andreoli, il papà di Pietro

Roberto Andreoli, il papà di Pietro

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Pietro, come il Piccolo Principe, ha fatto scoprire tante cose nuove e mai viste prima a suo padre Roberto, tipo che, come scrive Saint-Exupéry: «Ciò che rende bello il deserto è che da qualche parte nasconde un pozzo». Il 18 febbraio del 2010, quel pozzo per Roberto Andreoli e sua moglie Enrica divenne buio e infinito, quanto il dolore di un genitore dinanzi alla perdita di un figlio. Quello fu il giorno in cui il loro piccolo Pietro volò via per una malformazione artero-venosa alla base del cervelletto. «Pietro aveva sei anni... La cosa strana è che ricordo ogni istante di quei giorni.

Pietro che si sente male a scuola, ha mal di testa, vomita e poi l’emorragia cerebrale. I due interventi chirurgici affrontati con la forza dell’ometto. Prima di entrare in sala operatoria Pietro per farci coraggio ci diceva: “State tranquilli, io non ho paura perché con me c’è Gesù, mi aiuterà” ». Quando dal pozzo oscuro in cui era caduto sembrava arrivare uno spiraglio di luce, il cuore di Pietro all’improvviso si fermò, per sempre. «Quel 18 febbraio non si cancella più dalle nostre menti.

Io, invece fatico a ricordare il giorno del compleanno di Pietro», racconta Roberto che con Enrica e Riccardo (il fratello maggiore di Pietro, poi sono arrivati anche Emma e Michele) ha tentato di reagire a quella «sconfitta troppo grande». «All’inizio è stata durissima. Come si fa a rimettersi in piedi dopo la perdita di un figlio così piccolo? Mi chiedevo continuamente». La risposta affiorò dal pozzo illuminato in un giorno come tanti, da «ghiro impigrito steso sul divano, sempre in sovrappeso - pesavo 115 chili e fumavo come una ciminiera.

La risposta alle mie angosce la trovai in un paio di scarpe d’atletica ». È iniziata così la seconda vita del “maratoneta” Roberto. «Cinque anni fa la prima volta fu a una gara non competitiva a Milano. Pettorale di plastica e andare... Dopo 10 km stavo mollando quando tra la folla ho visto gli “occhietti” di Pietro e ho sentito la sua piccola mano che mi ha incitato a continuare, ad arrivare al traguardo». Dall’Arena di Milano a quella di Verona il passo non è stato breve, in mezzo 40 chili smaltiti con gli allenamenti, una dieta ferrea che gli ha spalancato le porte della società sportiva della sua città, la Dipo di Vimercate, e all’arrivo dei «42 km e 195». Numeri che Roberto sottolinea con orgoglio, perché poi è arrivata la «grande prova». L’ultimo obiettivo in ordine temporale è stata l’ultramaratona nel deserto della Namibia, 104 km diventati 106. «Volevo che ci fosse il “6”, - gli anni che Pietro è rimasto qui su questa terra - in quella che finora considero la più bella e la più importante impresa compiuta da quando ho cominciato a correre».

Una corsa contro tutto il male provato sulla propria pelle e contro tutti i limiti fisici precedenti, ma «tra il rumore del vento non ho sentito più nulla: la fatica, la sete, il caldo insopportabile e il dolore alla gamba che mi op- primeva da mesi». Ancora una volta la spinta è stata quella della piccola mano invisibile di Pietro a cui Roberto aveva dedicato la “#Run106Pietro”. «All’arrivo gli organizzatori della corsa sapendo che volevo arrivare a 106 km misero una bandierina rassicurandomi che facendo avanti e indietro da quel punto avrei coperto gli altri due chilometri mancanti. Pensavo che quel tratto l’avrei corso da solo, e invece mi sono ritrovato al traguardo assieme a quasi tutti i 26 partecipanti a quella corsa fantastica». Una corsa che è servita alla raccolta fondi destinata ad altri piccoli che stanno combattendo un’altra terribile malattia: il neuroblastoma. «Il 31 gennaio scorso ho consegnato il mio contributo per la ricerca: più di 21mila e 200 euro in favore dell'associazione Una, che sostiene il progetto di ricerca per la lotta contro il neuroblastoma". Quel 212 è il doppio di 106. Nei numeri continuo a trovare dei segni della presenza costante del nostro angelo: Emma è nata il 29 giugno il giorno di San Pietro ».

Corre Roberto, corre senza sosta. La prossima maratona sarà un altro deserto «con molti più chilometri da coprire. Certo ci sarà un “6” di mezzo, ormai ad ogni gara a cui mi iscrivo lo sanno e cercano di lasciarmi la pettorina con quel numero». Un motivo in più per sentire vicino Pietro che è sempre presente in ogni respiro, in ogni goccia di sudore che suo padre spende nella sua nuova vita di runner solidale. «Io dico sempre che i nostri figli sono quattro... Pietro ci ha insegnato che ognuno di noi nella vita ha dei dolori da sedare. E ognuno di noi deve trovare la forza di andare avanti. Non esistono ricette. A volte, si può tentare di stare un po’ meno male, magari indossando quel famoso paio di scarpe».

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