mercoledì 22 aprile 2020
Parla il filosofo: «Per uscire dall’emergenza dobbiamo ritrovare il senso del nostro essere umani: relativizza la paura della morte e difende dai rischi di controllo digitale»
Miguel Benasayag (Buenos Aires, 1953) è un filosofo e psicanalista

Miguel Benasayag (Buenos Aires, 1953) è un filosofo e psicanalista - .

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«Da quando è esplosa mi interrogo sulla novità della pandemia» dice al telefono Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista di origine argentina trapiantato da molti anni a Parigi, anche lui costretto a casa. Autore, tra l’altro, di La salute a ogni costo e Funzionare o esistere? e di prossima uscita, sempre per Vita e Pensiero, la conversazione con Régis Meyran, La tirannia dell’algoritmo, gli chiediamo lumi sull’epidemia che ci travolge.

Non è la prima volta che un’epidemia divampa nel mondo. Eppure sembra che la crisi provocata dal coronavirus abbia un sapore inedito...

«n passato di epidemie ce ne sono state tante. E in tempi recenti ne ritroviamo di altre. Sembra però di essercene dimenticati. Quella del 1957, la cosiddetta Asiatica, per esempio. Solo in Francia ha mietuto più di settantamila vittime e oltre un milione e mezzo in tutto il mondo. Ancora nel 1978 qui in Francia ci sono stati, in seguito a un altro evento epidemico, ventimila morti e quarantamila per le sue conseguenze e nessuno ne parla. Cosa dire delle endemie? Pensi solo alla dengue in America Latina che non si riesce a eradicare. Sbaglieremmo se dicessimo che la novità oggi è la pandemia, la diffusione del virus su tutto il pianeta».

Allora cosa lo è?

«L’evento inedito è la reazione che abbiamo davanti a essa non la pandemia in sé. Dobbiamo abbandonare quella sorta di fascinazione per l’evento virale che ci ha stregato. Prenderne le distanze. Non è certo facile perché viviamo sotto questa minaccia. La fascinazione è tipica del tempo virtualizzato, del tempo degli algoritmi, della sorveglianza totale e del controllo in un mondo globalizzato. La reazione che ne deriva è una reazione mondiale, in qualsiasi angolo del pianeta si fa esperienza della fragilità del vivente».

Ma è solo la globalizzazione a provocare una reazione diversa rispetto alle epidemie del passato?

«È cambiato il modo di intendere l’esistenza umana. Fino al 1968 essa era ancora integrata nel vivente. La morte era considerata un evento naturale. Doloroso ma accettabile. Nella società della delega invece tutto cambia. Assistiamo all’incontro tra la diffusione del virus e un mondo virtualizzato, dominato dalla delega di responsabilità. In questo nuovo contesto cambia il rapporto con la morte. Qui, dal punto di vista sociale, il virus trova un terreno favorevole. Ormai non c’è più un rapporto diretto tra gli uomini, e così pure tra medico e paziente. Oggi a prevalere è una medicina diagnostica, una medicina dei big data il cui obiettivo è solo quello di tracciare il profilo del paziente non di incontrarlo».

Secondo lei siamo in grado di prevedere le conseguenze che questa pandemia avrà sulle nostre vite?

«Ne intravedo due. La prima è la maturazione nei giovani della consapevolezza della fragilità dell’ecosistema. Questa sensibilità ha mosso i primi passi con il movimento ispirato da Greta Thunberg ma ora ha la possibilità di rafforzarsi. Sempre di più emerge la convinzione che siamo tutti legati insieme e che lo stupido individualismo finora dominante comincia a incrinarsi».

E la seconda conseguenza?

«È meno ottimista. L’esplosione della pandemia di coronavirus porta con sé anche l’imporsi del biopotere. Lo si vede, per esempio, con le iniziative del ministro francese dell’istruzione Jean–Michel Blanquer. Approfittando del contenimento della diffusione del virus, si spinge sempre di più verso la digitalizzazione delle attività didattiche. E lo stesso avviene con la medicina a distanza».

Pensa sia un male?

«I ragazzi dovrebbero essere invitati a pensare su cosa manca a loro in questa esperienza educativa. Che è fondamentale per gli uomini. Si renderebbero conto dell’assenza dei corpi, quando le nostre vite sono coscienze incarnate nel mondo. È dai giovani che comincerà la resistenza al biopotere».

Che forma prenderà?

«La gente si sente sempre più coinvolta in quanto accade intorno. Cresce così il rifiuto di delegare alle macchine la responsabilità delle scelte. Non sarà una resistenza violenta, oggi esercitata solo dagli Stati e dai terroristi. Siamo lontani dal clima degli Anni di piombo. La violenza resterà sotto un certo livello».

E quindi come si realizzerà questa resistenza?

«Si colonizzeranno gli strumenti tecnici per cambiarne il senso. Passerà attraverso un loro uso trasparente e senza nessuna attitudine tecnofoba».

Alcuni commentatori ipotizzano che l’attuale pandemia condurrà alla fine della globalizzazione. Cosa ne pensa?

«Non credo sia possibile. Il movimento ormai è troppo avanzato e non è più possibile tornare indietro. I circuiti di produzione sono troppo interdipendenti per arrestarsi. Quello che invece penso possa accadere è la maturazione di una critica più mirata e puntuale».

Nascerà forse anche grazie al confinamento che lascia più tempo per noi più liberi dai dettami delle produttività?

«Anche qui la questione è complicata. Il confinamento nasconde in sé dei pericoli. C’è il rischio che gli uomini perdano ogni forma, che il loro esoscheletro si sfaldi. Per questo è il momento di promuovere la formazione di un endoscheletro, incoraggiando lo sviluppo dell’interiorità».

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