venerdì 9 febbraio 2018
Intervista alla grande violinista, che sarà a Roma con Santa Cecilia e Antonio Pappano per il Concerto di Brahms: «La musica rompe le barriere e crea armonia fra le persone»
La grande violinista coreana Kyung-wha Chung

La grande violinista coreana Kyung-wha Chung

COMMENTA E CONDIVIDI

Kyung-wha Chung è una sorta di leggenda vivente in Corea. La violinista, considerata uno degli interpreti più dotati e raffinati del nostro tempo, è ritornata da pochi anni sulle scene dopo un lungo stop forzato a causa di un incidente a un dito, avvenuto nel 2005, che le aveva reso impossibile suonare. Cinque anni di silenzio e poi un graduale rientro culminato nel 2016 con l’incisione e un tour delle Sonate e Partite per violino solo di Johann Sebastian Bach. Chung, 70 anni il prossimo 26 marzo, sarà a Roma dal 22 al 24 febbraio per registrare dal vivo l’amatissimo Concerto di Brahms con Antonio Pappano e l’Orchestra di Santa Cecilia. Prima però lo eseguirà il 17 tra le nevi di Pyeongchang, dove con la sorella maggiore Myung-wha, violoncellista, dirige un festival (estivo e invernale) e una scuola per giovani talenti, che lascerà dopo le Olimpiadi per dedicare più tempo ad attività sociali e di beneficenza.

«È la prima volta che registro con un’orchestra italiana – racconta al telefono dalla Corea – ma ho già suonato con Santa Cecilia nel 2003, nel corso di un tour in Asia con mio fratello». Ossia il direttore e pianista Myung-whun Chung, di cinque anni più giovane di lei. Una famiglia formidabile di musicisti, forgiata dalla forza e la passione della madre.

Kyung-wha Chung ha esordito a 9 anni con l’Orchestra filarmonica di Seul. A 13 anni si trasferisce a New York per studiare alla Juilliard con Ivan Galamian. A 19 vince ex aequo con Pinchas Zukerman il concorso Leventritt. Nel 1970 sostituisce in corsa Itzhak Perlman con la London Symphony Orchestra: un successo formidabile che la porta a firmare un contratto in esclusiva con la Decca – prima violinista nella storia dell’etichetta discografica. Eventi che in patria, come racconta, hanno avuto enormi ripercussioni.

Signora Chung, lei è stata in assoluto la prima musicista classica dalla Corea ad avere una carriera internazionale. Oggi spesso troviamo vincitori coreani nei concorsi internazionali. Cosa è successo?

«Potrei dire che mia madre è stata anche la “madre putativa” della musica classica in Corea. Su sette fratelli, avevamo talento musicale in quattro. Nel 1958 ha organizzato una serie di “concerti di famiglia” nel paese: e all’epoca mio fratello Myung-whun era troppo giovane per partecipare, aveva solo cinque anni. È stata la prima esperienza di quel tipo in Corea e il successo della famiglia Chung ha avuto una ricaduta enorme. Quando poi ho vinto i primi concorsi internazionali e realizzato i primi dischi, la Corea apprezzò moltissimo il mio successo e mi sostenne. La mia famiglia è stata una sorta di modello per molte altre, che hanno iniziato a loro volta a suonare in formazioni cameristiche. In ogni campo c’erano persone molto dotate. Quando mio fratello iniziò a dirigere, mia madre organizzò un’orchestra giovanile per far sì che gli strumentisti potessero formarsi professionalmente anche nella musica orchestrale. Ora la qualità dei musicisti qui è davvero molto alta e la musica classica è meravigliosamente coinvolta nella vita quotidiana».

Colpisce soprattutto quanti cantanti sudcoreani calchino i principali teatri d’opera del mondo.

«La popolazione coreana ha una grande attitudine al canto, ha molte espressioni della vocalità: a partire da quelle popolari. Ci sono davvero molti punti di contatto con l’Italia. E il primo simbolo nel mondo dell’Italia è l’opera... Quando ero una bambina, ricordo, le persone cantavano sempre. Anche canzoni napoletane, da ’O sole mio in giù. Io stessa ho scelto il violino e mia sorella il violoncello perché strumenti così vicini alla voce umana. Ma devo dire che in generale i coreani hanno un formidabile temperamento musicale. Come gli italiani, no?»

Suo fratello, Myung-whun Chung, si adopera per mettere in relazione Corea del Sud e del Nord attraverso la musica. Nella sua esperienza davvero la musica può costruire ponti?

«È una domanda molto specifica. La musica può viaggiare sopra i confini, ma ha ancora bisogno di stipulare fisicamente connessioni armoniche per abbattere le barriere. La musica ne ha già abbattute, nella storia. Ricordo di essere stata a Berlino nel 1970, nella parte ovest della città. Ci sono tornata poi a muro caduto e Germania riunificata, per vedere che cosa era successo della città e ho visto quale ruolo avesse avuto in quel processo la musica. Senza la musica, e specialmente quella classica, c’è meno speranza per le persone di trovare armonia e pace».

Lei ha detto che «la mia fede e il mio fare musica sono completamente connessi». Perché?

«Sono cristiana, sono stata battezzata, tutta la mia famiglia era praticante. Senza fede non potrei nemmeno respirare. Credere mi ha aiutato moltissimo nei momenti più difficili della mia vita. Suono ormai da sessant’anni. E lungo tutto questo tempo la musica e la fede si sono intrecciate in modo indissolubile. Credo che entrambe siano un dono che ho ricevuto da Dio. Perché non suono per me stessa. Faccio musica per la gente, per le loro anime: perché desidero che sentano l’amore di Dio. La prima volta che sono salita su un palcoscenico, da bambina, c’erano molte persone. “Mio Dio – pensai – sono tutti qui per ascoltare me?”. E ho suonato con il cuore aperto. Il pubblico rispose con una tale gioia! Decisi nella vita volevo portare la mia musica e il mio cuore al pubblico. Oggi molto del mio impegno è dedicato ad attività benefiche, in Corea come in Africa. Ma penso che in un certo senso quella fu la mia prima esperienza di questo tipo. Perché la musica è per la gente. E l’esecutore è un portavoce, al servizio del compositore ».

L’incidente al dito ha cambiato il suo modo di vivere la musica?

«Quando nel 2005 mi sono dovuta ritirare sono andata alla Juilliard a insegnare. È stata una grande sfida per me perché potevo usare solo le parole: un’esperienza meravigliosa. Per tutto quel tempo ho pensato alle Sonate e alle Partite per violino solo di Bach: le suonavo nella mia mente, ricostruendone la polifonia, pensando la diteggiatura. Fino a che ho potuto inciderle e rieseguirle dal vivo in concerto. È stato un sogno che si avverava, non avrei mai pensato potesse accadere. Da cristiana e da artista ho pensato che ci fosse un motivo in questa prova, e che dovessi trasformarla in qualcosa di glorioso. Guardando indietro, quei cinque anni dovevano accadere».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: