giovedì 5 marzo 2009
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È il paleontologo che, negli anni ’60 del secolo scorso, racco­gliendo 50 mila fossili (ossa e denti) sulle rive del fiume Omo, nel­l’Africa orientale, ha scoperto l’e­vento- chiave della storia della vita sulla Terra: l’emergere della specie Homo dalla schiera degli ominidi pre­umani. Yves Coppens, leggendario professore del Collège de France, lo scopritore di Lucy, ha spiegato e di­mostrato come si era formato, nel pe­riodo compreso fra tre milioni e mez­zo e un milione e mezzo di anni fa, il cervello dell’uomo, come era 'esplo­sa' la sua feconda intelligenza, come era maturata la sua coscienza. I suoi libri hanno un pubblico entusiasta. Un anno fa è uscito Le origini del­l’uomo dalle edizioni Jaca Book che ai primi di aprile pubblicherà anche La storia dell’uomo. Professore, che cosa ha visto, stu­diando i fossili e confrontandoli fra loro? «Ho visto e dimostrato un processo durante il quale erano avvenuti tan­ti piccoli sviluppi quantitativi e an­che qualitativi, uno dopo l’altro, ma nel quale poi improvvisamente si e­ra prodotto qualcosa di indescrivibi­le, il boom delle mutazioni favorevo­li. Ecco l’uomo. Nell’Africa tropicale il clima da umido diventa secco, e questo drastico cambiamento co­stringe tutti, animali e ominidi, a tra­sformarsi per adattarsi al nuovo am­biente. Diciamo che io ho potuto co­gliere proprio il 'momento' in cui gli ominidi pre-umani, gli australopite­chi, diventano uomini». Da quali segni ha scoperto la gran­de trasformazione? «Cominciamo dal mutamento dei denti e delle ossa. Il regime alimen­tare cambia radicalmente. Quando il clima si fa secco, ci sono meno vege­tali e allora bisogna mangiare carne, per sopravvivere. L’uomo diventa cacciatore, sviluppa denti da onni­voro (mangia ora vegetali e ora car­ne, dipende da ciò che trova). Vedia­mo che sono più grossi e forti i den­ti anteriori (servono ad afferrare le prede) e più piccoli i posteriori. La dentatura forma un’arcata che ca­ratterizza il cranio della specie Homo perché non si ritrova mai nei pre­umani». Cambia la forma del cranio e cam­bia il destino della specie "Homo"? «Il mutamento fisico è ancora più e­vidente, è quantitativo ma soprat­tutto qualitativo. La parte anteriore del cranio è più sviluppata, rispetto a quella posteriore, e ciò comporta un maggiore afflusso di sangue, cioè di ossigeno, al cervello. Inoltre, men­tre l’ominide degli anni più lontani camminava a quattro zampe, e quel­lo dei climi umidi era sia bipede che arboricolo (si arrampicava sugli al­beri), la specie Homo si distingue per la locomozione esclusivamente bi­pede. Ma, soprattutto, il cervello più sviluppato fa emergere comporta­menti nuovi, in particolare la co­scienza. Questa trasformazione av­viene in maniera molto naturale, e c’è un particolare straordinariamen­te interessante: bastano piccoli au­menti della massa cerebrale umana a provocare splendidi aumenti delle facoltà mentali. Diceva Teilhard de Chardin: l’animale sa molte cose, ma l’uomo 'sa di sapere'. Il cambia­mento morfologico e qualitativo del cranio, per adattarsi al cambiamen­to climatico, rende possibile la rifles­sione. È come se l’individuo della specie Homo si guardasse allo spe­c­È chio, per osservare la propria imma­gine riflessa. In quattro miliardi di an­ni, da quando sulla Terra è spuntata la vita, non si era mai visto nulla di si­mile ». È il "salto ontologico" di cui parlava Giovanni Paolo II? «Gli anglosassoni dicono: "more so­metimes is different", l’aumento quantitativo talvolta provoca un sin­golare effetto qualitativo. Dopo tan­ti piccoli gradini, salendo i quali l’uo­mo, volta per volta, si attesta un po’ più avanti rispetto alle creature pre­umane, ecco il cambiamento gran­dioso dal punto di vista intellettuale, culturale e spirituale: l’uomo è tutta un’altra cosa. Allora io sono natura­lista ma non materialista. Ho studia­to tanto gli animali, ho visto quando l’animale diventa uomo. Che per­corso! Prima la materia inanimata che diventa sempre più complessa, poi la materia vivente, e alla fine si arriva alla materia che pensa. Sulle rive del fiume Omo, esplorato nell’800 dall’italiano Vittorio Botte­go, ho documentato il passaggio da ominide a specie Homo. E così mi so­no divertito a proporre un elemen­tare gioco di parole: la mia scoperta si può definire l’evento dell’(H)Omo». Le ultime notizie dal fronte della pa­leontologia? «Si cerca l’incrocio tra scimmie pre­bonobo e ominidi pre-umani. Per trovare l’antenato comune bisogna risalire a due milioni di anni fa. E si è molto vicini al traguardo». Dopo 150 anni, la teoria di Darwin va aggiornata? «Forse bisogna adeguarla alle nuove conoscenze scientifiche. Lui già ave­va operato una sintesi delle idee af­facciate da Jean Baptiste Lamarck, Al­fred Wallace e Georges Buffon, sul "trasformismo". Ora siamo riusciti a entrare nel cuore della cellula, di­sponiamo di una massa imponente di informazioni genetiche. Le muta­zioni sono casuali ma, quando av­viene un forte cambiamento, per e­sempio di clima, che provoca stress, le mutazioni si moltiplicano enor­memente; la selezione naturale vie­ne facilitata e migliorata dallo stress». Quali vantaggi scorge lei, da pa­leontologo, nella collaborazione tra scienza e fede?«L’evoluzione è un processo accerta­to. Ma l’emergere naturale della spe­cie Homo ha fatto nascere il primo essere vivente dotato di un pensiero spirituale, morale, estetico. Io oso di­re che questo evento è il grande 're­galo' che la scienza fa alla teologia e alla filosofia perché se ne occupino. La collaborazione è in atto».
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