giovedì 19 novembre 2009
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Il 21 novembre Benedetto XVI accoglierà nella Cappella Sistina un folto gruppo di artisti rinnovando il gesto di Paolo VI nel 1964. Il messaggio «Agli artisti» di papa Montini alla fine del Vaticano II e la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II rappresentano altre tappe di un’attenzione rinnovata all’arte. Ne parliamo con padre Marko Ivan Rupnik, teologo ed artista, direttore del Centro Aletti di Roma.Padre Rupnik, la frattura Chiesa-artisti si sta ricomponendo?«Il gesto del Papa va accolto con gratitudine e con immediata adesione. È un segno di grande significato e di profezia. Potrebbe trovare oggi un’adesione più cordiale dell’invito di Paolo VI, vero innovatore in materia. Credo sia in atto un disgelo progressivo, che si è manifestato in occasione della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II. Il momento è opportuno. Avendo il dono di dire in parole semplici verità profonde e a lungo scavate, credo che il Papa otterrà un’adesione convinta. Ma, sul versante della sensibilità pastorale e dell’ambito artistico, va notato un possibile pericolo: che l’approccio all’arte diventi una moda. La pastorale e la teologia nel passato si sono appoggiate di volta in volta ora sulla filosofia, ora sulla sociologia, poi sulla psicologia, non ottenendo risultati significativi. In questo momento, data la scarsità dei risultati, l’arte potrebbe diventare uno degli elementi di questo elenco. C’è il rischio di una sorta di ideologizzazione dell’arte. È vero che i martiri, i santi e l’arte sono tre testimoni incrollabili della presenza dei cristiani e che oggi viviamo una stagione artisticamente pallida e anemica rispetto alla fede. Ma, senza un preciso discernimento, il ricorso all’arte potrebbe diventare una fuga. L’arte potrebbe di nuovo tornare a essere ciò che ispira e promuove l’ammirazione, il senso del bello, del non violento, di quanto c’è di nobile nell’animo umano. Bisogna ammettere che di fronte all’arte contemporanea sovente le persone non sono spinte all’attrazione, all’ammirazione, al fascino. Quest’arte non apre nuovi orizzonti, ma si chiude spesso in esperienze e gesti senza via d’uscita. Il grande artista è quello che ti porta negli abissi e ti indica il sentiero per uscirne». Lei ha lavorato nella cappella Redemptoris Mater in Vaticano, a Lourdes, a Fatima e in molti altri luoghi. L’ultima opera sua e dell’atelier del Centro Aletti sono i 2400 metri di mosaico nella cripta che conterrà le spoglie di padre Pio sotto la chiesa di San Giovanni Rotondo, progettata da Renzo Piano. Nel lungo corridoio di avvicinamento ha disposto in parallelo le storie di san Francesco e padre Pio, mentre nella cripta, nella luce dell’oro e della risurrezione, si illustra la vita di Gesù. Perché ha scelto questo percorso?«Non si può immaginare la vita divina in noi come un dato individuale. La vita divina ricevuta significa scoprirsi "corpo" e "comunione". Mi sembrava fondamentale far vedere che un santo non è un eroe, ma è rivelazione del corpo di Cristo come comunione. Nello slavo antico e nelle liturgie orientali per dire santo si usa il termine "somigliante": Maria è la "somigliantissima". Padre Pio non è tanto una persona straordinariamente dotata, ma è la rivelazione di questo corpo di Cristo, "somigliante" a Francesco e ambedue "somiglianti" a Cristo. Il pellegrino che arriva a San Giovanni Rotondo per ringraziare o chiedere, alle soglie della cripta dove incontrerà la reliquia del corpo del santo, entra in comunione con i due santi che lo porteranno alla vita in Cristo».Lei ha lavorato su spazi di grande bellezza classica, su manufatti della pietà popolare e su chiese nuove. Il rigore razionale e funzionale dell’architettura contemporanea può piegarsi alla comunicazione del mistero cristiano?«A un primo livello devo dire che se un architetto è davvero padrone dello spazio, un creatore e non un epigono, cercherà un dialogo intenso con il committente ecclesiale. Una tendenza simile è già attiva. Fra i molti architetti che ho incontrato devo riconoscere che Renzo Piano è stato il più dialogico. Molto esigente, ma anche molto aperto. A un secondo livello, sul piano generale dell’architettura contemporanea, va detto che essa è tendenzialmente "dittatoriale", solipsista e autarchica, perché non tiene in conto di nessun altro apporto. Condivido invece il pensiero di Florenskij secondo cui l’architettura e l’arte sono in una relazione inscindibile. La pittura, il colore, la materia rappresentano il "tu" dell’architettura. Per la Chiesa dovrebbe essere connaturale. Su questo ho discusso con Renzo Piano ed è stato un incontro fecondo. Bisogna andare oltre il riduzionismo della razionalità moderna, che non a caso è più metodologica che creativa, estranea alla comunione come all’amore. Penso sia molto proficuo e fecondo anche per la società l’incontro fra il rigore metodologico della razionalità moderna con il simbolismo teologico e comunionale della Chiesa. L’architettura, senza tener conto del "tu" dell’arte, rischia la celebrazione dello spazio per se stesso (raramente si vedono, nelle pubblicazioni di architettura di chiese, immagini di celebrazioni con la gente). E l’arte, senza il sacrificio di sé per riconoscere il "tu" dell’architettura, rischia di curvarsi su se stessa».
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