domenica 29 gennaio 2017
Gli ottant’anni dell’“avvocato”: «La canzone italiana ha un futuro, ma ha bisogno di più “fatica” Il testo? Sta in secondo piano. Prima vengono note e armonia: la ricerca estetica è il vero scopo»
Conte ha 80 anni «Non sei vecchia, canzone italiana»
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«Non credo che la canzone stia morendo. Però va lavorata di più». A riaccendere le speranze sul futuro della cosiddetta “canzonetta” a quasi sessant’anni dall’ingresso della medesima nell’era contemporanea, coinciso in Italia con le braccia spalancate di Modugno a Sanremo, è nientemeno che Paolo Conte. Ovvero uno dei grandi maestri del cantautorato italiano, uno dei pochi nostri artisti capaci di ammaliare gli stranieri, che ha deciso di festeggiare gli ottant’anni compiuti il 6 gennaio mettendo in pausa il proprio riserbo: per concedere un’intervista a tu per tu dopo anni di microrisposte centellinate, per quanto sempre cortesi e argute. Nato ad Asti e avvocato di professione, almeno sino all’avvento del successo per la sua musica sognante e stratificata da tutti i migliori linguaggi del Novecento, dal jazz al tango, Paolo Conte partì quale vibrafonista jazz. Poi, canzone e pianoforte: prima da autore puro per Carla Boni o Patty Pravo; indi, dopo il boom delle sue Azzurro (versione Celentano) e Messico e nuvole (affidata a Jannacci), nel ’74 divenne cantautore con l’album omonimo che conteneva Una giornata al maree Onda su onda. Da allora Conte ha scritto brani quali Bartali, Via con me, Sotto le stelle del jazz, Diavolo rosso, Parigi, Genova per noi; ha inciso Lp spettacolari da Novecento a Snob o Razmataz; ha sfondato in tutta Europa e oltre oceano; si è espresso pure come pittore, autore di colonne sonore e (nell’ultimo Amazing game) puro compositore. Sempre con quella faccia un po’ così di uno che pare arrivato per caso sul palco, mentre avrebbe preferito fermarsi sul ciglio dello stradone a carpire il segreto di Bartali, emblema di dignità, fatica, italianità non retorica: e però, per nostra fortuna, alla fine Conte sul palco ci sale. Perché, per solito, è magia.

Ultimamente si ascoltano poche belle canzoni nuove. Secondo lei è possibile che quel linguaggio stia arrivando al momento di non avere nulla da dire?
«Per essere possibile è possibile: ma la canzone va “lavorata” di più, va “faticata”. Ultimamente vedo molta voglia di comunicare, di dare un messaggio, ma la canzone è di più e a volte non è necessario dare un messaggio o dire tutto a grandi lettere».

Lei che tipo di musica ascolta, oggi?
«Tanta musica classica, anche in tv, e vecchio jazz: Sidney Bechet e Louis Armstrong, soprattutto».

Chi la ispirò all’inizio del suo percorso?
«Proprio Armstrong, il pianista Art Tatum e la Piaf».

Dopo il disco strumentale ha dichiarato di non abdicare alla canzone. Che compito le darà?
«Nessun compito: se non quello di inseguire bellezza e fantasia. La ricerca estetica è già di per sé uno scopo, non c’è bisogno di altro».

Che cosa significa quando dice che per lei la forma deve sempre prevalere sui contenuti, nella musica?
«Parlo della forma della composizione musicale, di quello che come si dice “fa la pagina”. Note, armonia, ritmo per me prevalgono sempre sul testo».

Che bilancio fa, qualche mese dopo, del suo disco strumentale? È arrivato a questo mondo distratto?
«A giudicare dalle vendite, è un bilancio superiore alle mie aspettative. Il che è già qualcosa, creda…»

Nei giorni del Nobel a Dylan spiazzò l’intellighenzia auspicando un Nobel italiano non a Gaber, De André o Vecchioni, bensì a Jannacci. Che ha definito spesso più grande cantautore di sempre. Cosa aveva in più?
«Possedeva un elemento antico fondamentale, l’alto artigianato. E poi l’astrazione dell’arte».

Lei invece si è definito “favolista”, ci parlò di necessità del “sogno” per scrivere: ma la musica per Paolo Conte è anche un aiuto per vivere?
«Be’, ne parlo così perché non ho mai preteso di lanciare messaggi. No, non è un aiuto per vivere: è essa stessa una parte della vita, differente da tutte le altre. Per questo è favola e sogno».

Ha mai rimpianti per non essere diventato jazzista?
«Sì, lo confesso. Ma per il divertimento. L’improvvisazione jazz è un gioco fantastico».

Di quali suoi brani è più orgoglioso?
«Gliene cito uno: Gli impermeabili (pubblicato nel 1984, nda). Ma non ne rinnego nessuno, devo dire».

Comporre nel tempo è sempre stato un’esigenza e una sofferenza insieme, come raccontò qualche anno fa?
«Sì, esigenza, sofferenza e però anche felicità».

C’è un suo spartito che sintetizza bene la sua musica? E un suo testo che la ritrae come persona?
«Come spartito direi quello di Madeleine. L’uomo c’è già in Azzurro. E in Genova per noi ».

Le pesa che la gente cerchi di capirla dalle canzoni?
«A volte sono davvero capito, mai però del tutto. La conoscenza di una persona non può avvenire solo attraverso canzoni, per quanto queste possano dire molto. Però mi fa piacere destare interesse».

Quale insegnamento di uno come Renzo Fantini, suo storico manager, manca per lei alla musica di oggi?
«Guardi, credo che quella che lei definisce “musica di oggi” non avrebbe interessato Renzo Fantini: anche i grandi manager hanno i loro gusti…»

Diversi anni fa ci disse che avrebbe voluto essere in tour anche a ottant’anni, e ora ci siamo. Adesso? Ha ancora voglia di trovarsi in tour pure a novant’anni, come fece Charles Trenet e sta facendo Aznavour?
«Mi cita due che penso siano felici eccezioni… ».

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