martedì 8 aprile 2014
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Quel ch’è successo con le elezioni in Francia, in Turchia e in Ungheria, e quindi il rafforzarsi anche da noi delle istanze euroscettiche e addirittura antieuropeiste, sta avendo e fatalmente avrà sempre di più una ricaduta anche sugli atteggiamenti storici e morali che prevarranno o che comunque si presenteranno in coincidenza con le commemorazioni, nel biennio in corso, dello scoppio della Prima guerra mondiale quest’anno e dell’ingresso dell’Italia nel conflitto durante il prossimo.Anche in coincidenza di questo duplice evento avremo purtroppo una riprova in più degli errori fatti e del tempo perduto dai Paesi dell’Unione Europea nel puntare unilateralmente sull’integrazione economica e finanziaria lasciando da parte quella politica, quella culturale e quella militare. Non era questo che i padri storici dell’europeismo – che, a parte il laico Spinelli erano fra l’altro tutti cattolici (De Gasperi, Schuman, Adenauer) – avevano concepito e avrebbero voluto. Oggi, nelle critiche (alcune eccessive se non folli, altre non ingiustificate) che si muovono al pesante dirigismo dell’Eurolandia e che giungono a investire la moneta unica, quel che si coglie è comunque il disinteresse se non il disamore per la causa dell’unione europea in sé e per sé. Ciò colpisce soprattutto nei giovani e nei giovanissimi, ma appare al tempo stesso del tutto ovvio e naturale. Perché mai i ragazzi dovrebbero amare l’Europa, sentirla loro patria comune, dal momento che a parte la diffusa ostensione della bandiera azzurro-stellata nulla di serio è mai stato fatto dalle origini delle istituzioni comunitarie (cioè dalla fine degli anni Quaranta) a oggi per far sì che in loro crescesse, se non una passione patriottica, perlomeno una coscienza civica e uno spirito comune europei? Nemmeno in Italia si sono mai radicati sul serio e in profondità – ammettiamolo – né una, né altra cosa: eppure, dall’Unità ad oggi, la scuola italiana ha cercato in centocinquant’anni in vario modo di diffondere e di radicare quei valori. Nessuno fra i Paesi che progressivamente hanno deciso di “unirsi”, dai sei originari (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) fino ai ventotto attuali (ultima la Croazia, dallo scorso anno), ha mai fatto un serio e concreto passo nel senso del superamento del vecchio spirito nazionale e culturale: non c’è quindi da stupirsi che, appena emersa la crisi, il vecchio nazionalismo sia ricomparso assumendo spesso anche le forme più irrazionali e odiose. E continueremo così, a quanto pare. Stiamo per “celebrare” una guerra fratricida che in realtà durò non quattro-cinque, ma circa trent’anni (perché il secondo conflitto è soltanto la prosecuzione del primo e l’effetto delle ingiuste paci che lo conclusero). E alla doverosa, sacrosanta memoria dei caduti si stanno ancora associando le solite vecchie fanfare marziali. La Marsigliesedi qua, la Guardia al Reno di là, il God save the queen (o the king) di sopra, Il Piave mormorava di sotto. Nelle nostre scuole, nell’ultimo settantennio, nulla è stato fatto per fondare un serio insegnamento – in tutte le lingue europee – della storia comune europea. E le commemorazioni aperte quest’anno si chiuderanno, fra quattro, sul solito scenario delle ragioni e dei torti, dei vincitori e dei vinti. Si dice spesso che la storia in realtà non insegna nulla, che la “lezione della storia” non esiste. Sarebbe più esatto dire che non viene ascoltata. Per anni, nella Parigi postrivoluzionaria tra Sette e Ottocento, una parte della gente era attaccata maniacalmente alla Place de la Révolution, là dove tra 1793 e 1794 erano cadute migliaia di teste in un assurdo delirio fratricida, mentre un’altra parte ne odiava il ricordo ed evitava perfino di passarvi. Napoleone sostituì quel nome infausto con quello di Place de la Concorde. Ecco: io non desidero affatto che si cancellino le lapidi in onore dei caduti o che se ne chiudano i sacrari; ma vorrei che concordemente, e immediatamente, in tutti i ventotto paesi dell’Unione si cancellasse l’appellativo di “della Vittoria” a qualunque piazza, strada, via e ponte che lo porti; e lo si sostituisse con quello “della Concordia europea”. Se in questi decenni avessimo insegnato ai nostri ragazzi a riconoscersi nei nuovi ma antichissimi valori comuni, a insegnare a tutti che madame Curie, e Mozart, e Cervantes, e Shakespeare, e Leonardo, e Chopin, sono tutti nostri compatrioti e appartengono a tutti noi – a circa mezzo miliardo di persone –, il ricordo delle guerre sarebbe celebrato solo in mesta sordina e in cambio i nostri comuni problemi odierni sarebbero affrontati in spirito di più serena fratellanza. Tutto ciò non è accaduto. Le conseguenze di questa negligenza si faranno sentire nei prossimi mesi. E pagheremo tutti carissimo questi settant’anni di errori, quest’Europa che non c’è perché non l’abbiamo mai fondata.

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