venerdì 28 maggio 2021
Un uomo inutile” offre l’occasione di conoscere l’autore che è stato definito il Cechov turco: nella sua prosa frammentata spesso l’inesplicabile sconfina nel mistero
Lo scrittore Sait Faik Abasiyanik

Lo scrittore Sait Faik Abasiyanik - archivio

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In greco il San Pietro si chiama Christopsaro, «pesce di Cristo». Il motivo lo spiega Sait Faik Abasiyanik in uno dei racconti ora raccolti da Adelphi sotto il titolo complessivo di Un uomo inutile (la traduzione è di Fabrizia Vazzana e Giampiero Bellingeri, che firma anche l’utile nota finale; pagine 264, euro 19,00). Creatura spaventosa a vedersi e dal comportamento feroce, il San Pietro viene miracolosamente ammansito da Gesù, che così gli impedisce di fare strage degli apostoli. Fin qui la pia leggenda, che in chiusura Sait rovescia in allucinazione darwiniana. È noto infatti che, quando cade nelle reti dei pescatori, il San Pietro resta a lungo in agonia. Approfittando di questa sua tenacia, si potrebbe forse insegnargli a respirare all’aria aperta. «Lui si stupirà – ipotizza lo scrittore –. In principio sopporterà. Poi diventerà un poeta, un essere incompreso, irritabile e risentito. […] Strapperà via le cose più belle che custodisce dentro. Con i suoi attrezzi, tenaglie, lima, sega, scure, eliminerà con un sorriso amaro i punti dove Gesù gli aveva lasciato sul corpo le impronte delle sue dita. Riprenderà l’aspetto primitivo».

Un prodigio meschino, che riconsegna il San Pietro alla sua condizione di mostro e nello stesso tempo rende evidente l’inadeguatezza dell’umanità al cospetto del mistero. Nato nel 1906 ad Adapazari, nella Turchia settentrionale, e morto nel 1954 a Istanbul, Sait è un autore quasi del tutto sconosciuto nel nostro Paese: prima del volume attuale, l’iniziativa di portare in Italia le sue opere era stata presa da piccoli editori come A Oriente (che nel 2007 aveva pubblicato i racconti di Con poco zuccheronella versione di Lino G. Beretta) e Lunargento (presso il quale sono uscite lo scorso anno le poesie di Ora è il tempo per amarsi, sempre a cura di Bellingeri). Non molto, d’accordo, ma abbastanza per rendersi conto dell’importanza di quello che, con una analogia non del tutto immotivata, viene spesso definito “il Cechov turco”. La misura della prosa breve, ostentatamente occasionale e spesso orgogliosamente frammentaria, è senza dubbio quella che meglio si adatta al temperamento di Sait, alle sue visioni sospese tra il misticismo di Dostoevskij e la lucidità di Kafka.

Rispetto a questi e ad altri possibili riferimenti (la categoria ricorrente dell’«uomo inutile» rimanda all’ «inetto» dei nostri Italo Svevo e Federigo Tozzi), la scrittura di Sait è contraddistinta da una sensualità addirittura brutale, nella quale grande spazio è assegnato all’esperienza dell’olfatto. I profumi delle spezie e gli umori del corpo, i miasmi della metropoli e il ristagno dell’acqua finiscono per descrivere il paesaggio immateriale che l’autore esplora rispecchiandosi in personaggi d’invenzione tutti simili tra loro, ma ciascuno dei quali è marcato da un tratto inconfondibile. Sono spesso vagabondi urbani che scelgono di non avventurarsi mai al di fuori di un limitato reticolo di strade. La dismisura di Istanbul, con i suoi quartieri sordidi e scintillanti, si riverbera a sua volta nell’incommensurabilità del mare, contemplato dall’isola di Burgaz, dove Sait visse con la madre e dove sono ambientate molte delle sue storie. Memorabile, fra tutte, la partita di pesca da cui nasce Un puntino sulla carta, uno dei racconti nel quale è più insistente la suggestione esercitata dalla «Storia sacra dei cristiani».

Qui, all’esplicita rievocazione della figura del figliol prodigo, fa seguito un altro rovesciamento, del quale sembra fare le spese la parabola dei lavoratori dell’ultima ora. Ma è proprio l’umiliazione toccata al marinaio privato della sua parte a risvegliare in Sait l’urgenza della testimonianza: «Sono corso dal tabaccaio, ho comprato carta e matita. Mi sono messo a sedere in un posto appartato. […] Ho fatto la punta alla matita. Dopo averla temperata, l’ho presa e l’ho baciata. Se non avessi scritto, sarei impazzito». La resa al sogno e l’adesione alla realtà sono forze distinte, non necessariamente discordanti. «Io vivo solo di sogni e faccio vivere dei sogni», confessa a un certo punto l’autore, fissando un principio che trova applicazione in certi racconti della piena maturità, come lo straordinario Una storia così, traversata notturna di una Istanbul piovosa e incantata, nella quale tutto può accadere, pure che un assassino si rimpicciolisca per rifugiarsi nella tasca dello scrittore.

Ma queste irruzioni dell’inesplicabile non contraddicono un’altra dichiarazione di poetica, quella per cui la responsabilità della letteratura «consiste semplicemente nel vedere la verità e scriverla ». Si pensi, per esempio, alla percezione distorta in seguito alla quale, in L’uomo creato dalla solitudine, il narratore contempla le proprie mani che «crescono, crescono, crescono, enormi», oppure allo stupore che, in Il sonno del serpente, suscita la contemplazione dell’essere umano «come te, uguale identico», sul cui volto si disegnano «lievi tracce di risse, sassate, cadute». L’arte ha il compito di celebrare e accogliere, e può farlo anche senza parole, secondo l’insegnamento di Mastro Merjan, l’ispirato intagliatore al quale è dedicato Sorga il sole, buon raccolto: lui non scrive, ma in qualche strano modo le sue immagini, come quelle di Sait, si lasciano leggere.

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