lunedì 16 dicembre 2013
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Fino a non molto tempo fa padre Ferdinando Castelli non si perdeva un convegno, un incontro, una presentazione. Arrivava con il suo passo rapido, prendeva posto, ascoltava. Spesso interveniva nel dibattito, con una puntualità e una decisione che non mancavano di impressionare i presenti. Piccolo di statura, con i capelli bianchi e gli occhiali sempre sul naso, quel prete in clergyman stroncava sul nascere qualsiasi tentativo di interpretazione moraleggiante dell’esperienza letteraria. Un grande autore deve avere il coraggio di affrontare il mistero del male, ripeteva. E un critico, aggiungeva, non è un apologeta: ha il compito di comprendere, non di catechizzare. Qualcuno magari si scandalizzava, i più si interessavano, volevano sapere chi era quel sacerdote anziano e scattante, elastico di mente e pronto alla battuta. Adesso che padre Castelli è morto all’età di 93 anni, circondato dall’affetto dei confratelli di «Civiltà Cattolica», è difficile non provare rimpianto per la sua vasta cultura e per la sua straordinaria umanità. Anche quando si occupava di uno scrittore, infatti, dava sempre l’impressioni di appassionarsi a un destino personale. Riconosceva d’istinto i cercatori dell’Assoluto e Alla ricerca di... è, non a caso, il titolo di uno dei libri ai quali stava lavorando nella sua operosa vecchiaia.Era nato il 24 marzo 1920 a San Pietro di Caridà, in provincia di Reggio Calabria. L’incontro con la letteratura era avvenuto nel collegio dei gesuiti dove aveva studiato da ragazzo e in quegli anni si era radicata in lui anche l’adesione alla figura e all’insegnamento di sant’Ignazio di Loyola. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1937, appena diciassettenne, era stato ordinato sacerdote nel 1951. Per molto tempo il suo ministero si era svolto a Napoli, nei licei statali nei quali insegnava religione. Nel frattempo aveva continuato a leggere e a studiare, nello stile eclettico e rigoroso che è caratteristico dei gesuiti. Ammetteva che la sua concezione della letteratura (e, quindi, del mondo) era stata segnata da una rivista che lo aveva conquistato in gioventù. Era Il Frontespizio, il periodico fiorentino sul quale, lungo tutti gli anni Trenta, si erano alternate le voci di Piero Bargellini e di Mario Luzi, di Carlo Betocchi e di Oreste Macrì, di Carlo Bo e del prediletto Giovanni Papini. La sua Vita di Cristo, per padre Castelli, non poteva essere apprezzata se non attraverso il rapporto con l’autobiografico Un uomo finito: un grido di disperazione, quest’ultimo, al quale aveva fatto seguito il manifestarsi della Grazia. In Papini, secondo lui, si era compiuto il destino che appartiene nel profondo a ogni uomo.Il Frontespizio era stato inoltre una porta aperta sul problematico cattolicesimo francese dell’epoca, attraversato dalle opere di François Mauriac, Paul Claudel e Georges Bernanos. Padre Castelli – che pure non ha mai smesso di tenersi aggiornato, leggendo con costanza anche gli autori delle nuove generazioni – ha sempre considerato questi grandi francesi come un punto di riferimento irrinunciabili. Nei loro libri ritrovava l’abisso del peccato, senza il quale gli pareva impossibile arrivare a contemplare l’evento della salvezza. E francesi, del resto, erano i maestri gesuiti con i quali aveva avuto modo di entrare in contatto: Henri de Lubac, Michel de Certeau, Teilhard de Chardin.Nel 1971 si era trasferito a Roma, assumendo il ruolo di “scrittore” a «Civiltà Cattolica» oltre che di docente di Letteratura cristiana in diverse università pontificie, in particolare la Gregoriana e la Salesiana. Da questo momento in poi la sua attività si era fatta sempre più intensa, sempre più puntuale e sorprendente. Gli interventi sulla rivista si susseguivano a ritmo regolare, per poi essere rielaborati nei molti volumi che compongono la sua bibliografia. Il posto centrale è occupato dalle tre parti di Volti di Gesù nella letteratura moderna , edite dalle Paoline fra il 1987 e il 1995. È l’espressione più compiuta di quella che l’attuale direttore di «Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro, definisce la «cristologia letteraria» di padre Castelli. Un metodo di indagine che lo ha portavo a scrutare le tracce lasciate dal Nazareno nelle pagine di autori in apparenza assai diversi tra loro, dai nostri Mario Pomilio e Italo Alighiero Chiusano al giapponese Shusaku Endo e, più di recente, al Nobel José Saramago, in un arco temporale che va da Giovanni Boccaccio (al quale ha dedicato uno dei suoi ultimi interventi) fino ai contemporanei Giovanni D’Alessandro, Giuseppe Conte e Susanna Tamaro, passando per Joseph Roth e Jean-Paul Sartre.Ma l’elenco completo degli scrittori studiati, ammirati e contestati da padre Castelli sarebbe molto più lungo, pressoché sterminato. Ne è una dimostrazione un volume fresco di stampa, Meditare il Natale, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, alla quale padre Castelli aveva affidato lo scorso anno un’altra magnifica ricognizione fra letteratura e spiritualità, El gran teatro del mundo (il titolo viene da Calderón de la Barca). Una parabola di eccezionale coerenza, tracciata inizialmente dal programmatico Letteratura dell’inquietudine, uscito da Massimo nel 1963, e idealmente conclusa nei mesi scorsi, a distanza di cinquant’anni, dal Gesù, insonnia del mondo di San Paolo, che ha in catalogo anche l’importante dittico Nel grembo dell’ignoto (2001-2006). Numerosi, infine, i libri di padre Castelli editi dall’Ancora, tra i quali si possono ricordare Se ci fosse un Dio (2008), Dio come tormento (2010) e Cento finestre su Dio (2013). In uno degli ultimi saggi apparsi su «Civiltà Cattolica» padre Castelli si era occupato di un altro autore del Novecento francese, Joseph Malègue, più volte citato da papa Francesco come cantore delle «classi medie della santità». Un ritorno alle origini e, insieme, la dimostrazione di una curiosità rimasta prodigiosamente intatta.
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