giovedì 25 agosto 2011
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È il sacerdote ceco Tomáš Halík il vincitore del premio per il libro europeo di teologia cattolica dell’anno. Il riconoscimento gli viene assegnato oggi a Vienna, dove si apre il convegno della Società Europea di Teologia, appuntamento a cui in rappresentanza dell’Italia interverrà come relatore Pierangelo Sequeri. Nato nel 1948, ordinato in clandestinità durante la dittatura comunista, dopo la “rivoluzione di velluto” è stato consulente del presidente della Repubblica Václav Havel e nominato consultore del Pontificio consiglio per il dialogo con i non credenti. È presidente dell’Accademia Cristiana Ceca, docente di Filosofia e Sociologia della religione all’Università statale di Praga e assistente spirituale degli universitari nella capitale. In patria è forse l’intellettuale cattolico più noto, anche per i suoi libri di spiritualità indirizzati al grande pubblico. L’ultimo di questi, Pazienza con Dio, pubblicato l’anno scorso e già tradotto in 4 lingue, a cui si aggiungeranno tra poco il cinese e il coreano, è una meditazione sul problema dell’ateismo, o meglio sul rapporto tra credenti e no che ruota attorno all’episodio dell’incontro fra Gesù e Zaccheo narrato nel Vangelo di Luca.Perché lei insiste sulla “pazienza” come farmaco per il sedicente e diffuso ateismo?«In quello che scrivo cerco di condividere i frutti di un’esperienza lunga una vita nel dialogo con i non credenti. Credo che la fede possa vincere la miscredenza solo abbracciandola. Non dico a chi non crede “tu sbagli”, ma piuttosto “manchi di pazienza e la tua verità resta parziale”. L’ateismo convenzionale, così come l’entusiasmo religioso o il fondamentalismo, sono in fondo entrambi il frutto di una visione semplicistica di Dio e dell’esistenza. Misteri per addentrarsi nei quali è necessario avere pazienza. La fede, la speranza e la carità sono tre vie di pazienza di fronte al Dio silenzioso e nascosto». La Repubblica Ceca è veramente uno dei Paesi più secolarizzati d’Europa e del mondo, come viene descritto?«Diciamo che la maggioranza delle persone nella Repubblica Ceca prova una forte resistenza all’identificarsi con una Chiesa cristiana tradizionale. Molti si considerano atei, in realtà scambiano per fede quella che è una sua caricatura, l’evangelizzazione per indottrinamento: e la gente nei Paesi post-comunisti è allergica a qualsiasi tipo di indottrinamento. Finiscono per ricadere nell’agnosticismo o per professare una vaga spiritualità». Com’è essere sacerdote in un contesto del genere?«È un’affascinante opportunità, una missione splendida e una sfida tremenda. Il cristianesimo nel nostro Paese ha perso la sua auto-evidenza come tradizione, la capacità di ispirare collettivamente giudizi, costumi, rituali. Può però tornare ad essere paradossalmente quello che era agli inizi e quello che dovrebbe essere: fede, atto di libera scelta, risposta personale alla chiamata del Vangelo, una autentica sequela di Cristo. Quando oggi nella Repubblica Ceca qualcuno diventa cristiano lo fa come atto di suprema e personale emancipazione. Nessuno, tanto meno l’opinione pubblica, supporta o loda la sua scelta. Deve nuotare contro la corrente del conformismo, rispondendo costantemente alle critiche esterne e ai dubbi che sorgono dentro di lui. Così facendo purifica anche la sua fede, è costretto ad approfondirla e a dare una testimonianza autentica. Ci sono pochi posti, penso, in cui la fede e il sacerdozio, come servizio alla fede altrui, incontrano condizioni così impegnative. Ma il mio non è un lamento, non vorrei essere sacerdote in un ambiente tradizionalmente cristiano». Lei scrive del suo debito nei confronti di Santa Teresa di Lisieux, come guida per affrontare il fenomeno dell’indifferenza religiosa. In cosa specificamente?«Mentre stava per morire Teresa ha conosciuto l’esperienza devastante della perdita della fede. Ha conosciuto la morte di Dio annunciata dal pazzo descritto nella Gaia scienza di Nietzsche. Quella di Teresa è la testimonianza di una fede matura, una fede che si mostra come “pazienza con Dio”. Teresa risponde all’oscurità non con il risentimento o la pazzia, ma con un amore espansivo che abbraccia la notte oscura dei non credenti, diventati come compagni al suo capezzale. La fede deve entrare in questa “notte oscura” con una povertà di spirito tale che nulla le resti estraneo e non amato, nemmeno l’esperienza dell’assenza di Dio».Nel suo libro si trova una riflessione sulla basilica di San Pietro e sul colonnato del Bernini – braccia di pietra che si protendono verso il mondo, che si lasciano attraversare da chiunque, che delimitano uno spazio al cui interno chiunque può stare vicino a Cristo pur senza essere pronto ad accettare le “regole” che vigono all’interno del Tempio – che ricorda da vicino l’immagine del Cortile dei Gentili fatta propria dal Papa per il dialogo con i non credenti.«Penso che l’architettura di piazza San Pietro ci insegni una cosa: che la Chiesa deve essere una Chiesa aperta. I cristiani devono chiamare “per nome” coloro che sono in ricerca – come Gesù ha fatto con Zaccheo – e dire loro: vorrei entrare nella tua casa, venirti vicino. Se la Chiesa si concentrasse solo sui suoi membri pienamente integrati diventerebbe lentamente una setta. Io cerco di comunicare con coloro che sono in ricerca e mostrare loro che la fede non è un’ideologia. La fede e il dubbio, ossia la ragione critica, sono come fratelli che devono correggersi a vicenda. La fede senza la ragione è pericolosa, può portare al fanatismo e alla violenza, mentre la “pura ragione” senza alimento etico e spirituale dalle profondità della fede conduce al cinismo».
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