sabato 31 maggio 2014
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​Maurice Blanchot ha ragione quando, osando criticare Hegel, afferma: «Dio parla e l’uomo gli parla: ecco il fatto capitale di Israele. Hegel trascura semplicemente l’essenziale, che si esprime nei libri, nell’insegnamento, in una tradizione viva da millenni: se c’è veramente una separazione infinita, la parola ha il compito di farne il luogo dell’intendersi; se c’è un abisso invalicabile, la parola lo attraversa» (L’infinito intrattenimento, Einaudi).Che Hegel abbia trascurato «semplicemente l’essenziale» può suonare strano, eppure a me sembra che questa critica di Blanchot sia del tutto pertinente: certo, il Dio di Israele è l’infinitamente altro, il totalmente separato, l’assolutamente trascendente, eppure al tempo stesso egli è anche un Dio vicino, che si coinvolge con gli uomini, che interviene nella loro storia e abita con essi, in una parola, e questa più che essere una precisazione è una definizione, è un Dio che parla, è un Dio che è parola. «In questo senso – continua Blanchot – la parola è la terra promessa in cui l’esilio di realizza come soggiorno, poiché non si tratta di stare a casa propria, ma sempre all’Esterno, in un movimento in cui lo Straniero si libera senza rinunciare a se stesso».Ora, che cosa significa che Dio parli, ch’egli abbia scelto la parola come luogo dell’intendersi con l’uomo? La questione è enorme e non cesserà mai di sollecitare sempre nuove riflessioni e interpretazioni. Mi limiterò a sottolineare quelli che mi sembrano essere i due fuochi essenziali attorno ai quali ruota la questione. Anzitutto, se Dio parla egli «mi» parla, si rivolge «a me» con la sua parola. Questa parola nell’atto stesso di rivolgersi a me mi istituisce come degno interlocutore; in un certo senso, ancor prima del contenuto ch’essa trasmette, per il fatto stesso che mi viene rivolta fin dal principio mi chiama in causa e mi istituisce come capace di risposta.Il nesso d’essenza tra "creazione" e "parola" è precisamente questo; scrive Lévinas: «Il vero paradosso dell’essere perfetto è consistito nel volere uguali al di fuori di sé una molteplicità di esseri e, di conseguenza, un’azione al di là dell’interiorità. È qui che Dio ha trasceso la creazione stessa. È qui che Dio si è "svuotato". Ha creato qualcuno a cui poter parlare (...) aver creato un uomo capace di rispondere, capace di affrontare il suo Dio da creditore e non, come sempre da debitore: grandezza davvero divina!» (Difficile libertà, Jaca Book).Creare qualcuno a cui parlare significa istituire questo stesso qualcuno come colui che è capace di rispondere, significa sollecitarlo a rispondere abilitandolo a farlo, laddove appunto la risposta, proprio perché tale, è chiamata a non limitarsi a inviare o a riflettere l’appello stesso che la sollecita. In un certo senso anche se, paradossalmente, la parola che Dio mi rivolge non avesse alcun contenuto, per il fatto stesso che mi viene rivolta essa mi chiamerebbe comunque in causa istituendomi nella mia capacità di risposta. Ancora Lévinas: «L’uomo non sarebbe dunque un "ente" tra gli "enti", semplice ricettore di sublimi informazioni. Egli è, contemporaneamente, colui al quale viene detta la Parola, ma anche colui mediante il quale (par qui) vi è Rivelazione» (Al di la del versetto, Guida).In termini più rigorosi si potrebbe forse dire che la parola di Dio non è mai solo la trasmissione di un enunciato ma anche la scena di un’enunciazione, e un’enunciazione è sempre un luogo di incontro tra soggetti diversi, è sempre l’ambito all’interno del quale si istituisce il posto stesso del soggetto al quale essa si rivolge. «Il lettore, dunque, è a suo modo scriba. Questo ci dà una prima indicazione su quel che si potrebbe chiamare lo "statuto della Rivelazione: contemporaneamente parola che viene da altrove, da di fuori, e che abita in quel che l’accoglie». Da questo punto di vista ogni parola di Dio non fa che ripetere una sola parola: «Adamo dove sei?» (Gn 3,9).Ma la parola che il Dio biblico rivolge all’uomo ha anche un contenuto; essa è essenzialmente, anche se non esclusivamente, prescrizione e non narrazione: in fondo egli non si stanca di porre all’uomo sempre la stessa domanda: «Dov’è tuo fratello?» (Gn 4, 9). Questa determinazione della parola di Dio come Legge, Torah, non deve tuttavia essere equivocata. Dio non è un despota che impone i suoi editti ed esige di essere obbedito; in effetti la parola che con il suo semplice rivolgersi istituisce colui a cui si rivolge come capace di risposta è la stessa che chiama alla responsabilità verso l’altro, è una parola che abilita alla responsabilità verso tutti gli altri.Il Dio creatore, proprio perché tale, non crea dei servi o meri esecutori, ma interlocutori e collaboratori: egli ha creato non solo qualcuno a cui parlare ma anche qualcuno con cui parlare. Il Creatore ha chiamato l’uomo, ed esclusivamente la creatura uomo, non solo a «custodire» la creazione ma anche a «coltivarla» (Gn 2, 15): l’uomo è capace di coltivare la creazione perché è stato reso capace di esserne responsabile. Il contenuto della parola di Dio rende così esplicito il senso più profondo della parola come luogo per eccellenza dell’atto del «rivolgersi a»: se Dio quando parla mi parla, e così mi chiama in causa istituendomi come capace di risposta, allora egli mi parla proprio per darmi la parola e liberarmi così a una responsabilità che è solo mia. Intesa in questo modo la Parola/Legge non rinvia solo al primato e alla signoria di colui da cui promana, ma essenzialmente anche alla dignità irriducibile di colui a cui essa si rivolge abilitandolo così a risponderle. Si tratta, dunque, di una parola che non atterrisce e non ammutolisce, ma anzi sollecita a parlare (rispondere); parola, dunque, che fin dal principio mi chiama in causa ma, proprio perché fin dal principio, non subito e non immediatamente come colpevole. La parola di Dio dice «parlami!». Amos ce lo ricorda: «Il Signore Dio ha parlato: chi può non profetare?» (Am 3, 8).
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