venerdì 29 maggio 2015
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​Di tutte le cose infinitamente pregevoli che Walter Benjamin ha scritto, le pagine sulla Riproducibilità tecnica dell’opera d’arte mi hanno sempre lasciato molti dubbi; non sotto il profilo analitico, e di anticipazione di qualcosa che “era nell’aria”, ma per la brevità con cui quelle stesse ipotesi sono state brutalmente smentite dalla storia. Che la perdita dell’aura, ovvero del valore di unicità dell’opera d’arte, fosse un bene, perché metteva fine a quella dimensione elitaria che sempre, da molti secoli e nella modernità anzitutto, si è accompagnata all’esperienza dell’arte, e che la sua riproducibilità tecnica, ovvero seriale, fosse un possibile avanzamento storico perché consentiva l’accesso di un pubblico più vasto all’arte, in definitiva più democratico, e che questo (penso io) imponesse al nostro tempo una diversa aura, l’aura della quantità, della “moltiplicazione”, contro quella del valore unico e della mistica dell’arte, non mi pare, a conti fatti, una profezia realizzata.
 
Anzi: se proprio si vuole, ci si può vedere piuttosto una eterogenesi dei fini. Siamo sicuri che la diffusione larga dell’opera d’arte, alla luce degli esiti attuali, garantisca la diffusione della cultura in senso proprio e non un business? Non esiste forse un mercato scandaloso dei multipli con tirature da capogiro? E non esisteva già quando Rodin e gli altri cedevano i loro originali perché venissero realizzati quelli che poi verranno chiamati i “bronzi di Barbedienne” (dal nome di una delle maggiori fonderie specializzate in queste fusioni industriali)? E poi: la bellezza per tutti, cosa in sé auspicabile, passa necessariamente dal possesso dell’opera, o dalla sua disponibilità allo sguardo comune?
 
 
Salvatore Settis argomentando sulle ragioni e gli spunti di riflessione suggeriti dalle due mostre (in una) sull’arte classica allestite presso la Fondazione Prada a Milano e a Venezia tira dal discorso di Benjamin questa conclusione: «il tramonto di una concezione magico-rituale dell’arte, l’alba di un suo nuovo valore d’uso in senso politico». Per carità, non si tratta certo di prendere le distanze da una espressione come “valore d’uso”, che anzi torna di moda in questi tempi di riflussi neomarxisti in contesti neocapitalistici (vedi l’idea di fondo su cui Okwui Enwezor ha concepito la sua Biennale d’arte attualmente in corso); tuttavia, mi tornano in mente i giudizi sferzanti di Argan in Salvezza e caduta dell’arte moderna, quando, era il 1964, sentenziava una prossima morte dell’arte per il fallimento dell’utopia dell’alleanza tra cultura e forze della produzione nella società industriale: «Credo obiettivamente impossibile la sopravvivenza dell’arte in una società che emargini o rimuova il concetto di valore affinché non costituisca remora al consumo».
 
 
È questo il punto: il concetto di valore. E sul modo di intenderlo ecco che anche l’aura rifà capolino sotto altre forme: Duchamp, citato da Settis come colui che ha introdotto quella variazione “infrasottile” all’interno della serialità che delimita, residualmente, il principio di autorialità dell’opera (un principio, va detto, a suo modo orientale), è il grande cerimoniere dell’aura-fenice: anche lui finì per fare multipli dei suoi ready-made, tutti o quasi acquistati da musei a suon di dollari. E l’aura più evidente era appunto quella del denaro.
 
 
Settis ci ricorda che i greci, a distanza di millenni, sono ancora il nostro punto di confronto sul concetto di arte e di bellezza, il nostro patrimonio, anche se siamo eredi di un tempo che sembra aver cancellato un certo modo di pensare l’arte, che rimonta al Settecento e che si protrae fino agli inizi del Novecento. Eppure, dice Settis, nell’arte greca la serialità, la ripetizione sono principi inclusi, non eccezioni; perché al centro del “fare” greco (techne) c’è la «creazione di modelli ripetibili e capaci di incarnare valori collettivi».
 
 
Si può pensare che il classico come “serialità” e “ripetizione” abbia un preciso ruolo pedagogico, di pedagogia fondata sulla possibilità di vedere una continuità di valori e forme, dove le ristrette variazioni accreditano l’idea stessa di canone; il classico come una sorta di spazio nel quale il cittadino può attingere i valori per una “ripetizione” della polis nel nostro tempo. Il futuro del classico che Settis rielabora da tempo, nell’epoca della globalizzazione significa considerare il classico – che in sé è vocabolo d’uso recente – su basi aperte rispetto a una cultura che, invece, si poneva come una specie di hortus conclusus, quello occidentale (ma anche questa è una visione abbastanza infondata).
 
 
Nella mostra si fanno vedere confronti fra originali, copie romane e calchi in gesso di originali. I prestiti sono stratosferici: il Discobolo dei Musei Vaticani, quello dei Musei Capitolini, quello degli Uffizi, le Veneri accosciate di Palazzo Altemps, dell’Archeologico di Napoli, del Louvre, di Palazzo Massimo, dei Musei Vaticani, da cui proviene anche il Satiro, accanto al quale vediamo quello un tempo agli Horti Sallustiani ma oggi alla gliptoteca Carlberg di Copenaghen, quelli del Museo statale di Dresda; le statue di Pothos che vengono dai Capitolini, le due statue bellissime del Corridore dell’Archeologico di Napoli, da cui proviene anche il Doriforo, accostato al torso degli Uffizi e alla testa dell’Hermitage; e ancora: l’Apollo di Kassel, il grande frammento di Penelopedel Museo nazionale di Teheran, lo stesso soggetto dei Musei Vaticani e dei Capitolini, accanto ad alcune ricostruzioni e riproduzioni in gesso e polimateriche realizzate lungo l’ultimo secolo fino a oggi, tra cui spiccano, comunicando una sensazione di kitsch, le due statue realizzate nel 1991 dal bronzo e dal marmo dell’Apollo di Kassel.
 
Ho voluto enumerare le opere esposte, e non sono che una parte, mettendo in evidenza i prestatori perché è sorprendente che oggi i più grandi musei d’arte antica prestino questi capolavori a una Fondazione privata e non a un’istituzione museale pubblica. Questo suggerisce due considerazioni. Oggi spesso il privato sopperisce a carenze del pubblico di vario tipo: economiche, gestionali, organizzative, propositive. Si dice che in questi anni di crisi le fondazioni bancarie si siano orientate a sostenere le realtà sociali trascurando la cultura. Il declassamento della cultura, nei piani d’investimento del mecenatismo, è una delle ragioni del progressivo decadimento della competitività italiana. La seconda considerazione riguarda invece il soggetto promotore, in questo caso la Fondazione Prada, uno dei più prestigiosi brand della moda italiana.
 
 
Che ragioni può accampare una mostra d’arte antica in uno spazio orientato essenzialmente al contemporaneo? Nessuna apparentemente, se non sostenere una singolare analogia fra la “ripetibilità” e “serialità” che Settis mette in luce nell’arte classica e la “riproducibilità tecnica” di un marchio di moda che opera a livello internazionale. Ma, ahimè, l’operazione, se così fosse, pur legittima, non può che apparire spericolata e pretenziosa. Anche l’allestimento, molto marcato e macchinoso nella scelta dei supporti, contraddice quella “nobile semplicità” che era una costante dell’arte greca secondo Winckelmann. E così il classico si specchia ancora (involontariamente?) col kitsch. L’eleganza e la bellezza greca non sono poi così facilmente “ripetibili” mentre la “riproducibilità tecnica”, nella moda, è tutto tranne che per tutti. A cominciare dai prezzi. E il consumo, in questi casi, è più che mai segno di un’appartenenza elitaria. Fosse pure soltanto quella di un brand. Ed ecco che l’aura rispunta, ma ha tutt’altro senso da quello immaginato da Benjamin.
 
Milano-Venezia, Fondazione Prada
Serial/Portable classic
Fino al 24 agosto
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