sabato 10 maggio 2014
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«L’arte non esiste. Esistono le immagini, solo che noi europei ne abbiamo completamente dimenticato il potere». Jean Clair si congeda così dal pubblico del Salone del Libro, che resta smarrito per un istante, il tempo che basta per riannodare una conclusione così sorprendente con il discorso che il grande critico e storico dell’arte ha sviluppato nella sua lectio magistralis. «Un evento che considero il fiore all’occhiello dell’edizione di quest’anno», dichiara il direttore del Salone, Ernesto Ferrero, al cui entusiasmo fa eco quello di Luca Beatrice, presidente del Circolo dei Lettori di Torino e a sua volta critico d’arte: «Jean Clair è un maestro di scrittura e pensiero». E di indipendenza di giudizio, certo, di militanza intellettuale.Sono queste, del resto, le motivazioni del premio «Giuseppe Bonura» che lo studioso francese è venuto a ritirare qui a Torino. Istituito da Avvenire nel 2010 per onorare la memoria del critico-scrittore, in precedenza il riconoscimento è andato a Tzvetan Todorov, Goffredo Fofi, Ezio Raimondi e padre Fernando Castelli. Con Jean Clair ci si sposta nell’ambito delle arti figurative e ci si torna a interrogare sul ruolo che il sacro può ancora rivestire nella cultura dei nostri anni.«Finora la nostra è stata una discesa agli inferi», denuncia impietoso Clair, passando in rassegna le tappe di un degrado che ha portato prima a trascurare il culto a beneficio della cultura e poi ad accontentarsi del "culturale", luogo dell’indistinto in cui non valgono più le distinzioni fra alto e basso, e tutto si consuma in una sterile idolatria dell’ego. Il problema, insiste il critico, è che «il culto, non la cultura, ha originariamente reso abitabile il mondo». E che i musei, in questo momento, rappresentano una barriera rispetto a qualsiasi esperienza tesa all’autenticità. «La sagoma della nuova antenna del Louvre a Metz somiglia ai Buffalo Grill che incontriamo ai bordi delle autostrade», ironizza.Dopo di che l’analisi entra nel vivo, con un paragone di impressionante esattezza fra il cosiddetto «sistema dell’arte» e gli esiti della perdurante crisi finanziaria. «Subprimes, titolizzazioni, piramide di Ponzi, questi termini che ancora ieri erano sconosciuti ai più, sono apparsi all’improvviso nei giornali, a segnalare la catastrofe che abbiamo vissuta», sottolinea Clair, richiamandosi immediatamente al testo biblico: «Sono stati i Mane, Thecel, Phares sui muri del palazzo di Babilonia, parole sconosciute che il profeta Daniele interpretava come l’annuncio della fine di un Impero. Quel crollo improvviso nei tempi antichi era stato la conseguenza di un festino smisurato, di uno sperpero sfrenato di ricchezze, come la crisi attuale è legata a pratiche finanziarie di una voracità estrema. Ma, anche se lo si è meno notato, è legata come l’episodio biblico a un gesto di profanazione: nella Bibbia fu quello dei vasi sacri, mentre il crollo attuale è associato alla pratica moderna di utilizzare gli oggetti che nelle culture tradizionali erano destinati al culto come oggetti "culturali", suscettibili non solo di essere esposti come oggetti estetici, definiti opere d’arte, ma anche di essere trattati come prodotti commerciali, e quindi sottoposti alla circolazione, al mercato, alla speculazione finanziaria».Un’esagerazione? Niente affatto: «Hedge funds e titolizzazione ci hanno offerto un esempio di quel che la manipolazione finanziaria riesce a tirare dal nulla – insiste Clair –. Mischiamo il credito a rischio con altri titoli un po’ più sicuri. Esponiamo quindi il vitello di Damien Hirst accanto a un’opera di Joseph Beuys, o meglio di Robert Morris, opere già accreditate, dotate di un rating finanziario tripla o doppia A nel mercato dei valori, e quindi più affidabili. Facciamolo poi entrare in un circuito di gallerie private, in numero limitato e perfettamente al corrente del procedimento, con una bella sede e visibilità internazionale, che sapranno ripartire i rischi legati all’introduzione di un credito dubbio nella loro scuderia. Questo nucleo di iniziati costituisce il gruppo degli azionisti, che finanziano il progetto, portano i capitali, assumono i rischi. Promettono quindi agli acquirenti un rendimento elevato, dal 20 al 40% alla rivendita, a patto che questa si faccia rapidamente, entro sei mesi per esempio, contrariamente all’uso che era corrente nel mondo dell’arte, di investire sul lungo termine. La galleria stessa si può impegnare, se l’opera non dovesse trovare acquirente, a ricomprarla al prezzo di vendita, più un piccolo interesse. Infine, a coronamento del tutto, così come la Banca di Stato garantiva con una riserva d’oro l’emissione delle banconote, si otterrà da un’istituzione pubblica, un museo per esempio, l’organizzazione di una mostra dell’artista, di cui tuttavia le spese saranno coperte dalla galleria o dal consorzio di gallerie che lo promuovono».Il direttore della Galleria San Fedele di Milano, padre Adriano Dall’Asta, svolge il ruolo di moderatore proponendo una possibile via d’uscita da una situazione tanto drammatica. Il richiamo è ancora alla Scrittura, attraverso la mediazione di Basilio il Grande: il profeta Amos, il frutto del sicomoro che, per essere commestibile, dev’essere inciso e purificato dal suo veleno. «Non sarà questo il compito che l’arte contemporanea cerca di assumere?», chiede. «Sì – risponde Jean Clair – ma solo a patto di restituire alle immagini il loro potere. Come è accaduto in Russia quando, caduto il comunismo, le icone sono state riconsegnate al culto nelle chiese e sottratte alla cultura nei musei di Stato. Ma questa differenza, purtroppo, in Occidente pochi riescono ad apprezzarla».
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