venerdì 21 maggio 2021
Torna dopo mezzo secolo il “Dizionario” dell’erudito e poeta spagnolo: in oltre 1000 voci un tema che nell’età della scienza è malvisto, ma è una conoscenza che pone in relazione visibile e invisibile
Il "Battesimo di Cristo" di Piero della Francesca (Londra, National Gallery)

Il "Battesimo di Cristo" di Piero della Francesca (Londra, National Gallery) - .

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Nella Vocazione di san Matteo dipinta da Caravaggio sul fondo della scena c’è una parete che ha varie funzioni per la logica dell’immagine: è un limite percettivo che definisce lo spazio della scena; è anche una delimitazione drammaturgica, come il fondale sul palcoscenico teatrale; è, inoltre, il “mezzo” che introduce nell’immagine un elemento simbolico, anzi due. Uno lo troviamo anche in altre opere di Caravaggio: si tratta della diagonale che taglia il fondo rivelando la luce che entra nello spazio umano e lo drammatizza. C’è chi ha accostato quella diagonale al piano inclinato di Galileo (F. Bologna), e quindi ha dato al “realismo” caravaggesco una modernità d’impronta scientifica, ma altri hanno visto in quella diagonale il simbolo della rivelazione divina che entra nella storia e separa la luce dalle tenebre. In questo grande dipinto si trova anche un secondo simbolo, silenzioso come un convitato di pietra, ed è la finestra che sta in alto, sopra le figure raccolte attorno alla tavola. Forse sarà capitato anche a voi di chiedervi se l’infisso della finestra sia soltanto un incrocio di legni che incorniciano vetri, o non sia propriamente un simbolo, una croce. Maurizio Calvesi propendeva per la seconda ipotesi, e credo che avesse ragione. Quella croce, inconsciamente, ricorda a tutti che quanto sta per accadere avviene sotto il segno di un sacrificio, annuncia già l’epilogo della storia.

Ecco, mi pare che quella croce corrisponda all’idea di “oggettività del simbolo” che un grande erudito e scrittore spagnolo, Juan Eduardo Cirlot, ricapitola in un’opera corposa, il Dizionario dei simboli, composto di oltre un migliaio di voci, che Adelphi ripubblica (pagine 552, euro 34) con alcuni aggiornamenti e una postfazione di Victoria Cirlot, la figlia dello studioso, che è anche una docente universitaria che si occupa di Medioevo e di immagini, anche in rapporto alla modernità, come si potrà leggere in un saggio, Immagini negative. La studiosa scrive che questa versione del Dizionario è basata sull’edizione inglese del 1971, a cui sono stati aggiunte altre voci scegliendo da alcuni contributi redatti all’epoca dal padre (che morirà nel 1973 a 57 anni) da lei stessa scelti.

Lo scrittore Juan Eduardo Cirlot

Lo scrittore Juan Eduardo Cirlot - .

Juan Eduardo Cirlot aveva alcuni nomi di riferimento molto presenti nella discussione sul mito e le immagini simboliche durante gli anni in cui si dedicava al libro che, nella prefazione alla seconda edizione del 1969 (la prima uscì nel 1958), considerava come «quello a cui ci siamo dedicati con maggior passione». E lo affermava con un po’ di preoccupazione. Lo si può capire se, ancora oggi, quando nella discussione entra la parola simbolo o simbolico, a molti si drizzano le antenne. Nell’epoca dello scientismo come nuova religione, non sono ammessi elementi di disturbo che provengano da un altro “culto”. Peraltro Cirlot cita un autore che per la sua difesa della tradizione e del valore segreto delle forme e dei simboli qualche decennio addietro piaceva al pensiero conservatore, René Guénon, il quale nei Simboli della scienza sacra scrisse che «il simbolismo è una scienza esatta e non una fantasticheria in cui le fantasie individuali possano aver libero corso».

Altri nomi ricorrenti nell’esposizione di Cirlot – che con umiltà intellettuale definisce la sua fatica “compilativa”, in realtà è molto di più, perché in quel-l’aggettivo va inscritta una certa prudenza e un’adesione alle fonti «in nome dell’esattezza e in nome dell’autorità e della tradizione» – sono quelli di Mircea Eliade e di uno studioso tedesco, amico e maieuta di Cirlot, che ha dedicato saggi importantissimi alla simbolica musicale, Marius Schneider, cui il Dizionario è dedicato; ricorre altrettanto spesso Jung, ma anche Erich Fromm, uno dei più acuti pensatori della Scuola di Francoforte, e poi Diel, Max Müller, Rank, Coomaraswamy. Cirlot fu un poeta e uno studioso delle forme, e fu anche composito- re. Senza aderire mai al surrealismo, ne fu influenzato e tenne un carteggio con Breton. Era, dunque, molto aperto alle ricerche dell’arte contemporanea (era molto attratto dalla materialità informale di Tàpies), aveva una immaginazione che spaziava dalla parola alle immagini – quel “visibile parlare” che padre Giovanni Pozzi aveva approfondito studiando la presenza delle parole scritte dentro le immagini. Per Cirlot il simbolo è “metonimico”, tende al tutto e all’universale e rivela nella logica interna una “costanza profonda”. Ha a che fare anche con la psicologia, ma, pur non essendo Cirlot contrario alla psicoanalisi, chiarisce che «l’ambito dell’interpretazione è psicologico, più che simbolico in senso proprio, ed è ovvio che possa portare allo psicologismo, a una certa riduzione, che le dottrine spiritualiste rifiutano». E se Jung scrisse che l’inconscio è «la matrix dello spirito umano e delle sue creazioni», Cirlot precisa che nell’inconscio si trovano «tutte le forme dinamiche che danno origine ai simboli» e aggiunge che «i simboli onirici non sono, a rigore, diversi da quelli mitici, religiosi, lirici o primitivi. Solo che, nei sogni, ai grandi archetipi si mescolano come sottomondo i residui di immagini dell’esistenza reale, che possono essere privi di significato simbolico». Del resto anche Coomaraswamy considerava il simbolismo come «arte di pensare per immagini».

Anche Cirlot si muove nel solco della ricerca di una «verità simbolica oggettiva e universale», che si può anche collegare, sia pure con una proiezione spirituale, alla ricerca della lingua originaria da cui tutte le altre discenderebbero. Questa universalità – spiega – consente di “capire” le immagini della poesia ermetica con gli stessi principi ed elementi che si usano per la lettura dei sogni, dei paesaggi e delle opere d’arte. Il tema rimanda all’idea alla struttura originaria del cosmo e quindi alla “relazione” fra le cose, poiché «il simbolismo fornisce unicamente conoscenze “relazionali”». L’autore cita ancora Fromm quando osserva che la lingua simbolica è – pur con qualche differenza – la lingua usata con la stessa logica dai miti babilonesi, indù, egizi, ebraici, turchi, greci o ashanti, perché essi non obbediscono a categorie spaziotemporali ma all’intensità e all’associazione.

Un decennio prima che Cirlot in una conferenza del 1952 manifestasse – come scrive Victoria – il suo orientamento simbolico, un francescano missionario nel Congo Belga, Placide Tempels, aveva cominciato a studiare la cultura bantu arrivando alla conclusione che anche gli africani tribali erano capaci di una filosofia, ma non secondo le categorie occidentali, bensì secondo una lingua simbolica agganciata ai loro miti e alle immagini. Tempels dimostrò – in polemica con l’antropologo Lévi-Bruhl –, che i bantu avevano un pensiero autonomo e coerente, una filosofia delle forze vitali organizzata in un vero e proprio sistema metafisico. Ogni essere è una forza vitale e tutti gli enti sono forme viventi inserite, anche nella loro singolarità, in una continuità di reciproche influenze delle forze vitali, quindi in un preciso ordine relazionale. Cirlot scrive che il simbolo «è una realtà dinamica e polisemica carica di valori emotivi e ideali, ossia la vera vita». Già Jung aveva avvertito che se l’uomo moderno considera queste cose delle assurdità infondate, in realtà «tali associazioni esistono».

Tutte le mitologie si reggono sull’elemento che mette in comunicazione la sfera pratica con quella spirituale, «la dimensione umana e quella cosmica». E questo mezzo è il simbolo. Cirlot osserva che valore simbolico e valore storico possono essere funzionali al principio metafisico, quello dell’idea platonica. Così se la facoltà umana di ammini-strare i simboli sembra risalire al paleolitico, o forse prima ancora, essa si mantiene intatta fino a noi nella coscienza che san Paolo riassume con l’espressione per visibilia ad invisibilia, affermando dunque l’analogia fra cose visibili e invisibili. È ancora Jung a scrivere dell’analogia come “identità segreta”. E Schneider, da musicologo, la vede inerente al ritmo, un “ritmo comune” che si rispecchia nella lingua del cosmo, il suono: «il simbolo è la manifestazione ideologica del ritmo mistico della creazione».

Cirlot nota che «l’analogia è la chiave di volta di tutto l’edificio simbolico», che consente quella «identificazione sufficiente» per cui il sole e l’oro si corrispondono e tendono simbolicamente all’anabasi. E quando spiega che l’uomo primitivo e il suo animale totem sono uniti da un ritmo comune che si presenta come grido-simbolo, non so perché ma da questa “verità” fa breccia nella mia mente Picasso con Guernica: il grido dell’animale che non è più totem dell’uomo, ma della sua distruzione, comunica con le forze soprannaturali, ma ormai sono le forze della catabasi e del maleficio che ci minacciano. Leggendo la voce “Acque”, il richiamo costante alla figura della madre mi fa ricordare una massima di Leone Magno che suona come un monito compassionevole per l’uomo di oggi: «Dedit acquae quod dedit matri».

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