martedì 30 dicembre 2014
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Punti di (s)vista. La spettacolarizzazione del comico, dell’action e del fantasy nel cinema trova anche nei film d’autore validi alleati, per ripensare quanto labile sia diventato il confine tra vero e presunto, tra realtà e rappresentazione. La fragilità contemporanea delle certezze e delle sicurezze ha nell’immaginario filmico il suo terreno fecondo e il cinema, con la sua forza narrativa, diventa valido specchio della nostra società. La complessità della realtà è difficilmente rinchiudibile in uno spazio limitato, ma la violenza e l’inganno sembrano essere le chiavi per raccontare la paura di conoscere la propria identità e di trovare un posto nel mondo. Il primo gennaio, tra film comici e biografici, arriva in sala Big Eyes di Tim Burton, il primo lungometraggio sull’artista Margaret Keane, il cui vero nome è Peggy Doris Hawkins. Burton ha ricreato la storia di questa donna e delle sue opere, riconoscibili principalmente per i ritratti di bambini caratterizzati da occhi grandi ed espressivi. Margaret (una bravissima Amy Adams) si trasferisce con la figlia a San Francisco. Lì conosce Walter Keane (Christoph Waltz), pittore di scorci parigini, un po’ datati. Walter ha l’entusiasmo dell’ingannatore a caccia di profitto e, dopo aver sposato Margaret, si accorge che i quadri, che la moglie firma ora con il cognome “da sposata”, piacciono e vendono. Siamo negli anni ’60. «L’arte firmata da donna non vende» è l’arma della convinzione di Walter. E così Margaret, dopo un’iniziale resistenza, accetta di vivere il successo delle proprie opere all’ombra del marito. L’abile prestigiatore convince stampa e tv della sua arte, trovando nei risultati delle vendite la conferma che la manipolazione è l’unica via del successo. L’illusione di chi cerca nei media di costruire la propria immagine, di trovare consenso negli altri e di fare della propria incompetenza un mezzo per usare l’altro, è destinata a svanire presto. La menzogna come costruzione della verità si frantuma contro la testimonianza ingenua di una bambina, la figlia della pittrice che sa chi è veramente l’autore delle opere. Per giungere alla verità di se stessi il rischio da correre è la perdita. Attraverso la rinuncia a un impero nato sulla finzione Margaret riacquista la propria vita. È interessante notare come l’artista, che trova ispirazione nella purezza degli occhi perché esprimono l’anima e la realtà degli uomini, non riesca a trovare nella stessa ricerca della realtà la forza di manifestare la paternità delle proprie opere. Si confonde l’amore con la sottomissione e il successo. La crisi di identità («sono qualcuno perché tu riconosci che lo sono») accompagnata da un aggressivo narcisismo delle relazioni, è la malattia morale che genera sempre di più storie «tratte e ispirate da fatti realmente accaduti». Il pubblico americano che ha premiato al botteghino L’amore bugiardo (Gone Girl, il nuovo film di David Fincher, tratto dal bestseller di Gillian Flynn) riconosce un principio di realtà nell’intreccio immaginario degli eventi narrati. Con il film di Fincher, regista di Se7en e The Social Network, lo spettatore adulto (la visione è sconsigliata ai minori per le scene dove il sesso è strumentale anche alla violenza) si trova di fronte a un ritratto cupo delle derive affettive e delle manipolazioni mediatiche nelle nostre vite. La realtà, sia nel romanzo sia nel film, è sempre affidata alle voci narranti, prima del marito, poi della moglie, che ci mostrano la loro prospettiva. La sparizione di Amy (Rosamund Pike), nel giorno del quinto anniversario di matrimonio con Nick (Ben Affleck), sarà alimento ghiotto per i mass media amanti di cronaca nera. Il circo mediatico imporrà (o servirà) a Nick di convincere l’opinione pubblica della sua onestà. È vero ciò che vediamo o è vero quello che racconta il narratore? Nascono impressioni e supposizioni come nel film culto di Brian Singer,  I soliti sospetti, ma non sono mai esauribili se non alla fine del film quando lo spettatore comprende che in realtà la visione di quella storia è stata contraffatta dal punto di vista. Questa forma di racconto, che trova nella manipolazione la sua natura, non è solo un artificio narrativo. Il finto diventa così vero che si trasforma in reale. Complotti e manipolazione della verità anche in Tak3n, la terza parte della serie di successo scritta da Luc Besson con Liam Neeson, che uscirà in Italia il prossimo 12 febbraio. Gli interessi manipolano la realtà degli eventi, anche al prezzo di vite umane. E alla fine una domanda continua a serpeggiare. Di chi ci si potrà fidare? «L’accaduto è davvero terribile perché uccide la fiducia negli uomini», confessa scoraggiato il monaco buddista in Rashomon, il celebre film di Akira Kurosawa che riporta le quattro versioni diverse – a seconda dei punti di vista – della causa della morte di un samurai. Il cuore del disagio contemporaneo, che dalla società si riflette nelle storie filmiche, è l’affannosa ricerca di (ri)conoscere la propria identità per non sotterrarla al servizio del potere e del successo o delegarla ai media. E il film senza tempo, Zelig, il finto documentario di Woody Allen, che ha dato origine al genere mockumentary, è una risposta ancora attuale alla nostra crisi. Zelig, che sembra riuscire a sopravvivere solo nell’identificazione con l’altro («Mi dà sicurezza essere come gli altri»), guarirà dal suo trasformismo innamorandosi. La salvezza della propria identità è il sapersi amati: l’amore diventa la realtà che dà significato e cambia la vita a volte incolore, grigia uguale a una, nessuna e centomila vite.
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