mercoledì 16 aprile 2014
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La storia della rivoluzione e la conquista del po­tere da parte di Mao Zedong è cruciale nel pro­cesso di legittimazione del potere cinese. Ma cosa sappiamo realmente di quella vicenda? Quanto sono affidabili le fonti alle quali si sono abbeverati gli storici, posto che è stata silenzia­ta la voce di testimoni oculari quali i missiona­ri? Sono domande scottanti quelle sollevate da Stefano Cammelli in Quando l’Oriente si tinse di rosso, densa rac­colta (423 fitte pagine) di saggi sulla rivoluzione cinese. In essi l’autore ripercorre il convulso periodo storico che va dal massacro dei comunisti operato da Chiang Kaishek nel 1927 fino alla fondazione della Repubblica cinese nel 1949, do­cumentando «di che lacrime e di che sangue» si sia mac­chiata la rivoluzione di Mao. L’opera di Cammelli (già au­tore di volumi editi dal Mulino e da Einaudi) è stata pub­blicata da un piccolo editore semisconosciuto, Polonews Pa­per, e con l’appoggio dell’Associazione culturale Ticino-Cina. «Le difficoltà di questo testo, che dopo due anni di at­tesa, ha dovuto accettare di uscire in un collana per spe­cialisti, la dice lunga», è il commento amaro dell’autore.  Il punto è che la tesi sostenuta e ampiamente documenta­ta nel libro, frutto di 12 anni di lavoro, è a dir poco politica­mente scorretta: la storia della rivoluzione cinese, avven­tura ideologica e mitica, alla quale buona parte della sini­stra europea si è rifatta con ammirazione, va sostanzial­mente riscritta. Con tutto il rispetto per «il pur pregevole sfor­zo di Enrica Collotti Pischel», docente universitaria e sag­gista, per decenni indiscussa autorità in materia.  Il j’accuse di Cammelli (che ha consultato, fra l’altro, gli straordinari archivi della Bethlehem Mission Immensee in Svizzera e dell’Istituto Saveriano Missioni estere di Parma) non conosce mezze misure: gli storici occidentali hanno pressoché ignorato le fonti missionarie, privandosi così di una componente preziosa, anzi irrinunciabile. Per quanto possa suonare strano, spiega Cammelli, «non è più possi­bile scrivere la storia della rivoluzione cinese senza cono­scere italiano e tedesco», le due lingue in cui la maggio­ranza delle relazioni dei missionari in quegli anni sono sta­te scritte. «Decidere di rinunciare a queste fonti è stata la scelta più incomprensibile e più errata di tutta la storio­grafia sulla rivoluzione cinese dagli anni Cinquanta in poi». Forse l’abbiamo dimenticato, ma attorno agli anni Venti del XX secolo in Cina operavano circa ottomila missionari occidentali (fonte: Propaganda Fide); ben due terzi di co­loro che in quegli anni partivano dall’Europa e dagli Usa 'per gli estremi confini della terra' in obbedienza a Cristo ap­prodavano in Cina. A dispetto della leggenda che vuole il 'Regno di mezzo' im­penetrabile e ignoto, Cammelli può così scrivere: «Nella pri­ma metà del XX secolo la situazione della Cina era un del­le più conosciute e studiate al mondo», dal momento che «per raccogliere fondi e risollevare le sorti di quella 'fertile vigna di Cristo' (…) i missionari inviavano alle loro par­rocchie delle semplici relazioni sulla vita in missione. Con continuità, per decenni». Commenta Cammelli: «È questa straordinaria complessità della figura del missionario, questa sua funzione di 'cerniera' tra due mondi la ra­gione per cui su questo immenso archivio occidenta­le è sceso un silenzio profondo. Nessuno dei due mon­di, Occidente e Cina, si è riconosciuto in quelle rela­zioni. Il missionario era già 'altro' mentre scriveva». Lavorando da anni nel mondo missionario, chi scri­ve non può che confermare. Due emblematici e­sempi in merito, entrambi targati Emi: La Cina di Mao processa la Chiesa, che, uscito nel 2008, riper­corre le complesse e tormentate vicende dei padri del Pime in Henan tra il 1938 e il 1954 e le lettere di pa­dre Cesare Mencattini del Pime (uscite in volume nel 2011 col titolo Una vita per la Cina, a cura del confra­tello Angelo Lazzarotto). Ma torniamo a Quando l’Oriente si tinse di rosso. Cam­melli afferma, ad esempio, che «molte sevizie che la lette­ratura missionaria ha raccontato (le giornate in prigione senza che nessuno spieghi cosa stia accadendo, l’essere costretti a stare seduti per terra per giorni senza potersi ap­poggiare al muro, senza alzarsi o sdraiarsi, la mancanza d’acqua, l’essere costretti a espletare i propri bisogni cor­porali esattamente dove si è seduti senza il diritto di alzar­si, ecc.) sono le stesse sevizie che descriveranno i dirigenti comunisti sopravvissuti alle purghe nel Jangxi e a quelle di Yan’an prima dell’arrivo di Mao». L’autore riporta parecchi passi di un volume autobiografico, Nella terra di Mao-Tse­tung, a firma di un missionario del Pime, Carlo Suigo, usci­to nel 1961; in parte esso coincide con quanto scritto in Stella rossa sulla Cina, il libro di Edgar Snow che contribuì a costruire il mito del comunismo cinese e la sua diversità da quello russo, in parte se ne distacca notevolmente.  Una delle frecce più acuminate Cammelli la scaglia contro coloro «la comunità degli esperti», che «innalzò un muro di così alte dimensioni che ancora oggi pesa in molti am­bienti universitari» su «due intellettuali raffinatissimi», u­no dei quali era il gesuita ungherese Laszlo Ladany, per de­cenni anima della celebre 'China News Analysis'. (Un ri­cordo personale: appena arrivato a 'Mondo e Missione', nel 1994, ricordo che l’ex direttore, padre Giancarlo Poli­ti, consultava puntualmente quell’esile bollettino giallo, fors’anche perché di Ladany aveva una conoscenza per­sonale). Giunto in Cina alla vigilia della vittoria della ri­voluzione, Ladany ne era stato espulso dopo la procla­mazione della Repubblica popolare cinese; a quel punto, dopo aver rifiutato il trasferimento a Taiwan si era stabi­lito a Hong Kong, dove aveva pazientemente avviato il suo lavoro di «intelligence in chiaro», annotando, mese dopo mese, scrive Cammelli, «nomi, necrologi di dirigenti, pre­senze a manifestazioni e assenze, discorsi ufficiali, com­memorazioni », e trasformando così la sua pubblicazione (attiva dal 1953 al 1998) in una sorta di sismografo in tem­po reale del potere cinese. L’ostracismo degli esperti cadde su di lui perché, rileva Cam­melli, «Ladany fu tra i primi a scoprire e denunciare l’avvio di massicce campagne di epurazione agli inizi degli anni Cinquanta; il primo a cogliere il delinearsi del progetto po­litico detto Grande balzo in avanti; il primo a comprende­re quale immensa tragedia umana avesse provocato». I­noltre «colse le dimensioni e la vastità della tragedia della Rivoluzione culturale che fu tra i primi a presentare come movimento di pura epurazione politica della vecchia guar­dia non più fedele a Mao». Peccati imperdonabili per occhi accecati dall’ideologia. 
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