giovedì 10 settembre 2015
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Il cibo. Ognuno ha la sua “ricetta”, non necessariamente per la composizione degli ingredienti, ma anche per il modo tutto personale di interpretarlo, di viverlo, di gustarlo. È il tema del momento. Fra eccessi di spettacolo in televisione, scaffali delle librerie piene di titoli gastronomici, ma anche – per fortuna – approfondimenti seri sulla nutrizione, in diverse location come, ça va sans dire, l’Expo Milano 2015: il tema «Nutrire il pianeta, energia per la vita» richiama proprio a una sana alimentazione, alla lotta allo spreco e uno sviluppo sostenibile. «Il cibo è l’unica cosa che accomuna tutti gli esseri umani. Il cibo è cultura, identità, spiritualità, socialità. Se non ridiamo valore a ciò che mangiamo, se non lottiamo per salvare ciò che resta di una civiltà agricola millenaria, che ci ha reso ciò che siamo, ma che sta rapidamente scomparendo, non possiamo sperare di modificare il sistema alimentare in cui siamo immersi». Parola di Carlo Petrini, introducendo il lavoro del sociologo Paolo Corvo e del giornalista Stefano Femminis in Dimmi come mangi (Terre di Mezzo, pagine 174, euro 13,50 da oggi in libreria) che proprio su questi temi indaga. Come? Con quattordici interviste «imprevedibili» sul cibo, per parlare di cibo in maniera «leggera, ma non superficiale» con personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo, del giornalismo. Il cibo, dunque. Pupi Avati confessa la «nostalgia per le tagliatelle della nonna»: «Al mattino presto preparava già il soffritto per il ragù. Io prendevo il caffellatte, prima di andare a scuola, e vedevo la nonna che stava già preparando il ragù di mezzogiorno, per tutta la famiglia. E insieme all’odore ricordo la cura, l’attenzione. Sfiderei qualunque di questi chef insopportabili a preparare un piatto di tagliatelle con il ragù come le faceva mia nonna». I passatelli della nonna romagnola sono per Licia Colò un modo per ricordare la sua infanzia e un’occasione per trasmettere la ricetta alla figlia. Piatti, generazioni e territori, perché non dimentichiamo che c’è la memoria, ma anche un legame straordinario fra un piatto e un luogo: la pasta e fagioli amata da Bruno Pizzul, pur diffusa in tutta Italia, trova in terra friulana una delle espressioni più riuscite. Il profumo del minestrone inebria lo scrittore lecchese Andrea Vitali che apre un suo recente libro (Le tre minestre) con una frase che è una dichiarazione d’amore: «La minestra è la biada dell’uomo». «Mia zia Paola era molto religiosa; tornavi da un viaggio e puntualmente ti faceva trovare il brodo. Perché il brodino, diceva, neta tüch, pulisce tutto. Secondo lei dovevi purificarti dalle scorie del viaggio, dalle immagini». Ci sono ricordi gastronomici anche nella memoria di Enzo Bianchi: i ravioli o gli agnolotti alle tre carni, la Bôgna cauda, e soprattutto el ruladein-ni, le rolatine di carne di nonna Maìna. «La gioia che nasceva attorno a quel piatto non l’ho mai dimenticata – dice il priore della comunità di Bose –. Ancora oggi quando voglio far festa e dire ai mie amici “vi voglio bene”, cucino le rolatine allo stesso modo». «Penso che il cibo sia un grande dono che va accolto. E che il buono debba essere anche etico. Io sono ebreo… è fuori dalla mia possibilità di concepire il foie gras», ammette e in qualche modo accusa il regista Moni Ovadia che ha scelto di essere vegetariano: «Ho smesso di mangiare la carne trentaquattro anni fa, il pesce tre anni fa». Lo ha convinto «un amico polpo». «Se uno stabilisce un rapporto di amicizia con un polpo, poi è difficile mangiare pesce – continua –. È successo in Grecia, c’era un acquario e questo polpo mi tendeva un tentacolo, io gli davo il dito e lui me lo prendeva, poi mi mandava degli spruzzi d’acqua. Si dice che i polpi cono come bambini piccoli». Un episodio divertente. Ma anche un principio di vita. «Il kasherut, cioè mangiare il cibo come prescritto, è stato uno dei modi per rimanere ebrei, quando tutto diceva “ma chi te lo fa fare”». Ovadia cita un aneddoto riportato da Jonathan Safran Foer nel suo Se niente importa, «un libro straordinario»: «Foer racconta di sua nonna, una ebrea dell’Est Europa che ha vissuto braccata nelle foreste. A un certo punto è sfinita dalla fame, appoggiata a un albero, sta tirando gli ultimi. Un contadino russo ha pena di questa donna, entra nella sua isba e ne esce con un pezzo di carne di maiale. Lei ringrazia, ma rifiuta. La legge ebraica permette di mangiare qualcosa, anche i cibi proibiti, se si è in pericolo di morte. Dunque lei poteva. E il nipote scrive: “Per anni avrei voluto chiederle perché, e alla fine l’ho fatto!”. E lei risponde: “Se niente importa, perché dovrei vivere?”. Una risposta grandiosa, immensa». Per l’attore Giacomo Poretti il tema sul piatto è la «sobrietà del mangiare», nel riportare alla mente la grande attesa della domenica, quando sua madre – che aveva patito la fame – preparava le lasagne o gli gnocchi. In un tempo non così lontano mangiare era una conquista quotidiana. Eppure – nonostante le nuove e forti povertà – viviamo in tempi di «bulimia»: consumare cose, tutto. «Siamo dentro un tormento di tentazioni». E allora «come diceva il biblista gesuita Silvano Fausti, fare digiuno serve a imparare a non mangiare l’altro». Un «obiettivo probabilmente irraggiungibile per me – confessa Poretti –, però vorrei provare a pormelo». Attraverso il profumo dei lamponi, nelle estati in montagna in Francia, e l’odore («che esita tra il profumo e la puzza») dei mercati del pesce Michele Serra va alla sua conditio: «Non esiste il piacere del cibo senza il piacere della socialità. Il convivio è una delle forme più alte della civilizzazione: mettere le gambe sotto lo stesso tavolo, dividere il cibo, offrire fratellanza. Una vera comunione. C’è una epistola di Orazio, al tempo stesso divertente e commovente, nella quale invita un amico a lasciar perdere, finalmente la vita snervante di Roma e raggiungerlo subito in campagna, dove si può oziare, chiacchierare, mangiare e bere in compagnia. Non saprei indicare niente di più consolante e di piacevole, nella vita che una tavola con del buon cibo, del buon vino, dei buoni amici. È un presidio contro la solitudine e la paura della morte». Più di così?
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