giovedì 27 aprile 2017
Scrittori credenti a confronto alla Fordham University di New York
Il gesuita James Martin: «Ci sarà sempre un immaginario cattolico»
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Diciotto tavole rotonde su questioni quanto mai varie (dall’analisi dell’immaginario ignaziano in Silenzio di Scorsese alle voci di donne cattoliche nella letteratura d’oggi passando per la “ next generation ” degli scrittori cattolici e la poesia contemporanea di ispirazione cattolica); tre università statunitensi coinvolte; decine di relatori chiamati da tutti gli Stati Uniti; vari nomi di grande prestigio come speaker, tra i quali Phil Klay, lo scrittore che con il suo Fine missione ( Einaudi) ha vinto il National Book Award, oppure Paul Elie, critico letterario che sul New York Times ha più volte affrontato il rapporto fede- romanzo. Sotto il titolo “Il futuro dell’immaginario cattolico letterario” si apre domani alla Fordham University di New York (la conclusione è prevista sabato) un importante e qualificato convegno dedicato al rapporto tra letteratura e cattolicesimo. Tra quanti daranno il loro contributo spicca il nome di James Martin, gesuita, una delle voci cattoliche più ascoltate nella cultura americana contemporanea. Editor at large della rivista America, il prestigioso settimanale dei gesuiti americani, nominato proprio qualche giorno fa da papa Francesco consultore della Segreteria per la comunicazione del Vaticano, Martin è lui stesso scrittore: il suo Jesus: A Pilgrimage ha venduto centinaia di migliaia di copie e l’ha reso – secondo Robert Ellsberg, giornalista ed editore – «lo scrittore cattolico più famoso negli States». Di Martin le edizioni San Paolo pubblicheranno prossimamente l’edizione italiana di The Jesuit Guide for (Almost) Everything (Guida gesuitica per quasi tutto), altro best seller negli Usa.

Nel manifesto del congresso che si tiene alla Fordham si legge la domanda: «Perché gli scrittori cattolici sembrano non avere più una posizione dominante nella cultura letteraria americana?». Quale risposta dà lei a tale interrogativo?

«Forse vi è stato un tempo in cui gli scrittori cattolici ebbero una “posizione dominante”: potremmo pensare a personaggi come Thomas Merton, Dorothy Day, J.F. Powers, Flannery O’Connor, Walker Percy e altri, che scrivevano tra gli anni ’40, ’50 e ’60. Ma non penso che essi ebbero la posizione dominante. Bisogna anche dire che la cultura americana è stata, nel passato, largamente di marca protestante e per questo teneva a debita distanza gli scrittori cattolici. Negli ultimi decenni la cultura americana, letteraria e non solo, è diventata molto più laica. E così gli scrittori cattolici oggi vengono considerati come avviene con qualsiasi altro scrittore, che sia ebreo, protestante, musulmano, agnostico o ateo. Se vi è mai stato un tempo in cui la figura dello scrittore cattolico è stata preminente, certamente è avvenuto in un certo momento storico particolare, che non si ripeterà mai più. Questo si avverò all’incirca tra gli anni Cinquanta e Sessanta quando i cattolici non erano più visti con pregiudizio o odio, e furono capaci di uscire dal “ghetto” e accettati dalla cultura statunitense».

Oggi negli Stati Uniti vi sono ancora degli scrittori riconosciuti come “cattolici”?
«Penso che esista ancora qualcosa che nel mio Paese vada sotto l’etichetta di “scrittore cattolico”. Non semplicemente uno scrittore che sia cattolico, bensì un autore che veda il mondo attraverso le lenti cattoliche – potremmo dire, in modo sacramentale. Ma è interessante che alcuni cattolici scrittori non amino il termine “scrittore cattolico”, per questo sono abbastanza cauto nell’usare questa espressione. Includo in questa categoria personaggi come Ron Hansen e Alice Mc Dermott, entrambi al convegno di New York».

Quali sono le questioni con le quali gli scrittori credenti dovrebbero maggiormente confrontarsi oggigiorno?
«Penso a tematiche di immensa importanza come l’economia e la finanza, le migrazioni, il dolore innocente. Incidentalmente, sono alcune delle questioni su cui parla e scrive papa Francesco. Mi sembra che la miglior scrittura venga fatta quando le persone scrivono di ciò che maggiormente le appassiona. Non penso che gli scrittori scrivono di certi argomenti semplicemente perché sentono di doverlo fare, ma perché vi sono come tirati dentro. A mio giudizio, questa attrazione viene dallo Spirito Santo. Sì, penso che sia lo Spirito Santo a ispirare gli scrittori, mettendo in essi una passione o un senso di indignazione morale che li spinge a scrivere. Vi è una retta indignazione che può portare a un’eccellente letteratura, così come a un ottimo giornalismo. Nella mia vita ho sentito sempre di più la spinta a scrivere riguardo alle persone che più son messe ai margini, i rifugiati e i migranti, ma anche coloro che sono marginalizzati dalle ingiustizie del capitalismo, da coloro che sono dimenticati dai mass media dominanti, ad esempio i carcerati, i senza casa, gli omosessuali, e così via. Lo scrittore è chiamato a dare voce a chi non ha voce».

Oggi tra religione e letteratura vi è un rapporto di maggiore o minore intensità rispetto a quanto avveniva negli anni in cui gli scrittori cattolici erano in auge? Pensiamo ad esempio agli anni ’50-’60 per gli Usa, dove c’erano O’Connor o Percy da lei citati prima, oppure anche agli anni Trenta (Bernanos in Francia)?
«La mia sensazione è che vi sia meno conoscenza della religione rispetto a un tempo. Se Bernanos scrivesse Diario di un curato di campagna oggi, molti lettori non capirebbero perché sempre meno hanno un contatto diretto con dei preti. Mentre invece vi erano tempi in cui quando uno scrittore scriveva, i suoi lettori capivano tutto di lui, o quanto meno le sue parole. Cosa è un “parroco”? Cos’è un “breviario”? Cosa è una “sagrestia”? L’ignoranza del vocabolario religioso di base spingerebbe i lettori di oggi a mettere da parte un libro come quello. Io credo comunque che la religione in se stessa influenzi ancora gli scrittori».

Qual è la sua personale top-3 dei romanzi che negli ultimi dieci anni hanno esplorato il sentimento religioso
e la ricerca spirituale?
«Anzitutto Gilead (Einaudi) di Marilynne Robinson. È semplicemente uno dei migliori libri sulla fede che abbia mai letto. Scritto in una prosa chiara, limpida, quasi perfetta da una maestra di scrittura, ci racconta la storia di un pastore protestante e della sua vita semplice, buona e santa. L’ho letto e riletto diverse volte. Poi viene Brooklyn di Colm Toibin (Bompiani). Non sono sicuro se Toibin sia un credente, ma questo è uno dei pochi libri che ritraggono in maniera convincente una persona buona, una donna i cui valori morali vengono messi alla prova e che sinceramente cerca di essere un essere umano buono e caritatevole. Infine Mariette in Ecstasy di Ron Hansen. È un libro di oltre dieci anni fa, ma lo inserisco in questa mia classifica: è uno dei romanzi religiosi più potenti di sempre. Il libro racconta le esperienze di una giovane suora a New York: lo si legge come un poema. E leggerlo è come leggere una preghiera».

Tornando alla tematica del convegno alla Fordham, quale sarà a suo giudizio il futuro dell’immaginario cattolico
nella letteratura?
«L’immaginazione cattolica non morirà mai perché il cattolicesimo non morirà mai e anche perché al di fuori del cattolicesimo vi saranno sempre uomini e donne che scrivono come cattolici. In un certo senso, essi non possono non scrivere da cattolici per il semplice fatto che, se il cattolicesimo è penetrato nella loro anima e vi ha preso posto, essi lo mostreranno nei loro scritti, in maniera conscia o meno. Il concetto che Dio è presente nel mondo, che ogni momento può essere visto in un modo maniera sacramentale, che Dio ci giudicherà, che Gesù ci ha offerto un modo coerente di vivere, che la vita ha un significato e uno scopo, ebbene, tutto questo fa parte dell’immaginario cattolico. E finché la Chiesa esisterà, ci sarà anche questo particolare tipo di immaginazione».

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