martedì 28 giugno 2022
Il museo torinese compirà 200 anni: «Smettiamo di pensare che i musei siano degli hub turistici ma asset strategici per le città e il Paese. Le restituzioni? Anche i musei fanno parte della storia»
Il direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco

Il direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco - Museo Egizio di Torino

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«Questo è il museo in cui ho sempre desiderato lavorare e il posto in cui vorrei rimanere. Sono felicissimo e non ambirei a nient’altro. Ma ovviamente la decisione non è solo mia». Christian Greco ci riceve nel suo ufficio torinese affacciato su piazza Carignano, al quarto piano del secentesco Collegio dei Nobili che dal 1824 ospita il Museo Egizio. Arrivato nel 2014 quasi sconosciuto, in otto anni di direzione, in tandem con la presidente Evelina Christillin, ha rivoltato una decorosamente attempata istituzione portandola a diventare uno dei luoghi della cultura più innovativi al mondo e più frequentati in Italia, con una media annuale pre-pandemia di 800mila visitatori e oltre 300mila nel primo quadrimestre del 2022. Il suo contratto (rinnovabile dalla Fondazione che gestisce il museo) scadrà il 30 giugno 2025, quando avrà cinquant’anni, ma nonostante le molte, economicamente allettanti, sirene dall’estero, è determinato a restare. Sempre in viaggio tra le capitali culturali d’Europa e Il Cairo, dove è a capo del consorzio internazionale per la trasformazione del vecchio museo di piazza Tahrir, ha appena pubblicato un libro per ragazzi (Tutankhamun, DeAgostini, pqgine 205, euro 13,90). È però a Torino il centro del suo interesse. C’è da pensare alle prossime mostre, a partire da quella che aprirà a settembre, dedicata alla scrittura nell’antico Egitto, a 200 anni dalla decifrazione della stele di Rosetta. E soprattutto c’è da celebrare il bicentenario del suo museo, il primo al mondo interamente consacrato alle antichità egizie.

Il 2024 è vicino, quali sono i vostri programmi?

«Stiamo lavorando a una trasformazione architettonica che porterà a liberare l’ipogeo e a realizzare una copertura trasparente sulla corte interna. Diventerà un’agorà aperta a tutti, un luogo d’incontro dove senza pagare il biglietto si potranno svolgere attività culturali, nella consapevolezza che il museo debba essere un avamposto di trasformazione e di educazione continua, io lo chiamo un praesidium libertatis. È un progetto insieme civico e culturale. Avremo un caffè letterario dove sedersi a leggere, un giardino botanico antico-egizio con sicomori, papiri, ninfee. E finalmente daremo libero accesso al tempio nubiano di Ellesija, donato nel 1966 da Nasser non a un singolo museo ma al popolo italiano».

E l’ipogeo come verrà riutilizzato?

«Sarà il luogo dell’ibridazione tra materiale e immateriale. Siamo partiti da un interrogativo: cosa manca al Museo Egizio da 200 anni a questa parte? La risposta è molto semplice: manca l’Egitto. Ci sono pezzi di cultura materiale strappati dal loro territorio, ma non c’è il territorio. Con gli istituti di ricerca nazionali e internazionali stiamo studiando una modalità di restituzione del paesaggio in una interazione virtuale con gli oggetti della nostra collezione e senza ricorrere all’Oculus Rift o altri dispositivi, ispirandoci al TeamLab Borderless di Tokyo. È una sfida di cui potranno poi beneficiare altri musei. Ha anche un valore civico, perché permette di capire cos’è il palinsesto del paesaggio, perché lo devi proteggere».

Qual è il ruolo del museo, oggi?

«I musei sono essenzialmente enti di ricerca: senza ricerca non hanno più ragion d’essere. Però non sono un qualcosa di sospeso, rispondono e sono inseriti nella società. Quindi i risultati della ricerca devono essere tradotti in modo che siano comprensibili a tutti. È necessaria una rivoluzione copernicana: io vorrei che noi non fossimo più l’oggetto delle visite una volta l’anno, ma un luogo di accrescimento culturale permanente. L’Egizio può diventare un’aula scolastica e universitaria, dove seguire lezioni di chimica, di matematica preeuclidea, di medicina - abbiamo più di 100 mummie che ci raccontano tra l’altro l’evoluzione di certe malattie, dall’artrosi all’arteriosclerosi. In Italia contiamo 4.667 musei, ma siamo agli ultimi posti nella loro fruizione: i dati Ocse dicono che solo il 41% pratica un’attività culturale una volta all’anno, contro il 70% dei francesi. Per questo mi piacerebbe molto cambiare anche il modello economico dell’Egizio: vorrei arrivare alla gratuità, restituire le collezioni alla Repubblica dando piena risposta all’articolo 9 della Costituzione».

Ma è un modello economicamente sostenibile?

«Lo diventa se cambiano completamente prospettiva, se smettiamo di pensare che siamo degli hub turistici, ma semmai un elemento in più per i turisti. Noi siamo un asset strategico per questa città per questo Paese, col quale però ci dobbiamo relazionare molto di più, innanzitutto facendo formazione. È per questo lavoro che dovremmo essere pagati: non in quanto custodi, ma perché offriamo dei prodotti che possono essere un laboratorio, un corso, la traduzione divulgativa dei risultati di una ricerca».

Un tema molto caldo di questi tempi è quello delle restituzioni ai Paesi d’origine. Qual è la sua posizione?

«Io ritengo che dovremmo innanzitutto scandagliare i nostri inventari e capire cosa e come abbiamo acquisito in un lasso di tempo che va dall’Ottocento alla metà del Novecento, in cui abbiamo visto imperialismo, colonialismo, due conflitti mondiali, nazifascismo, sequestro delle collezioni giudaiche. Dopo di che, solo il parlamento può decidere sulla restituzione. Ma mi domando se non possiamo trovare soluzioni differenti, per esempio scambi e comodati a lungo termine: si potrebbe ricostruire un contesto X al Cairo, poi quello stesso contesto può venire a Torino, poi a Parigi, poi a Berlino. Io guardo anche con molto interesse al metaverso, che ci permetterebbe di realizzare il "Museo Egizio impossibile" dove avere, altro esempio, la tomba di Bab el-Gasus con tutti i 156 sarcofagi dei grandi sacerdoti di Amon che furono trovati al suo interno e che adesso sono sparsi tra Il Cairo, vari musei regionali e 17 musei internazionali».

Quindi, in gran parte, i reperti africani possono restare in Europa?

«Se i musei, come da definizione degli anni Settanta del secolo scorso, sono un luogo della memoria, anche questa parte della storia ha un suo valore. Negarlo sarebbe come dire che il museo è una scatola neutra e neutrale, un contenitore in cui gli oggetti possono andare e venire. Anche i 200 anni dell’Egizio, ciò che ha rappresentato per Torino e per l’Italia, per l’egittologia internazionale - Champollion è stato tra i primi a venire qui per studiare la collezione - be', nella storia della nostra disciplina questo ha un valore che non può essere messo in discussione».

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