mercoledì 17 novembre 2010
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Il cristianesimo si incontra presto con il diritto, e finisce con l’es­servi pienamente coinvolto. La sua diffusione si realizza nella realtà dell’impero romano, che ha rag­giunto un livello di maturità e sa­pienza giuridica ancora oggi insu­perato, con un’autorità politica cen­trale e una legislazione ammirate in ogni epoca. La nuova religione assi­mila la mentalità e la pratica giuri­dica sin dai tempi delle persecuzio­ni, quando vive e si struttura utiliz­zando gli strumenti del diritto ro­mano per ciò che riguarda la propria organizzazione, amministrazione dei beni, struttura gerarchica. Ma la compenetrazione con il diritto si de­termina soprattutto quando diviene religio licita nel 313, religione del­l’impero nel 380, in proporzioni che ingigantiscono con il tempo.Le ragioni della «giuridicizzazione del cristianesimo» sono oggetto di discussione, senza che una tesi rie­sca a prevalere sull’altra. La più con­vincente ritiene che il diritto sia con­naturato al cristianesimo, pur non potendosi negare il ruolo svolto dal­l’incontro con la romanità. Per Pao­lo Grossi, «su un punto si può tran­quillamente concordare: che questa Chiesa – che è romana, che dalla ci­viltà romana ha assorbito molto (...) – questa Chiesa ha avuto da Roma in legato il sentimento della rilevanza del diritto e, di conseguenza, la per­suasione del diritto come cemento sociale come garanzia di incisività nella storia e – perché no? – anche come strumento potestativo». Però, aggiunge l’autore, la ragione del rapporto inscindibile tra Chiesa e diritto è un’altra, risiede nel fatto che il cristianesimo sceglie di agire nella società come nel proprio am­biente naturale. La «Chiesa non dif­fida del temporale, anzi vi si immer­ge ben volentieri convintissima che la salvezza eterna dei fedeli si gioca proprio qui, nel tempo e nelle tem­poralità (...). Ma nel temporale non vivono individui isolati, bensì un re­ticolato di rapporti che uniscono gli individui nella societas ». La comu­nità «protegge, garantisce, media», è «l’unico tramite sicuro per un collo­quio efficace con la divinità», e ne deriva «la preminenza e l’essenzia­lità del giuridico», perché «se per l’i­deologia religiosa cattolica è nel so­ciale che si gioca la salus aeterna a­nimarum, il diritto, compenetrato nel sociale, lo è implicitamente an­che al religioso. Il diritto si colloca naturalmente anche in un orizzon­te salvifico».Il grado di compenetrazione con il diritto dipende dal contesto geopo­litico nel quale il cristianesimo si diffonde, provoca effetti aggiuntivi, incide sulla sua natura religiosa, e nel tempo si modifica, cresce, si af­fievolisce e si stempera. Un mo­mento decisivo del processo di giu­ridicizzazione è quando Costantino diviene arbitro nelle vicende interne della Chiesa, pur essendo ancora pontifex maximus, capo dei pagani. Costantino quasi si sdoppia. Guida e garante del paganesimo, si erge a difensore dell’unità cristiana, consi­dera tale unità un grande valore po- litico, esercita diritti e poteri squisi­tamente ecclesiastici. L’imperatore sollecita la Chiesa a risolvere le con­troversie dottrinali aperte in Africa da Donato, il quale ritiene necessa­rio un nuovo battesimo per gli ere­tici convertiti e considera invalidi i sacramenti amministrati da chieri­ci indegni. È iniziata la commistione con il di­ritto pubblico, ma la compenetra­generale zione tra impero e Chiesa giunge a compimento con l’esplosione della crisi ariana. L’insegnamento di Ario mette a rischio l’identità del cristia­nesimo, ma ha effetti deflagranti an­che per l’impero, dove per la prima volta province e distretti si dividono e si combattono per motivi teologi­ci. Poiché l’insegnamento di Ario si diffonde e conquista consensi, si prospetta l’esigenza di un concilio – la prima assise ecumeni­ca della storia – che definisca una dottrina valida e cogente per tutti. Costantino convoca il concilio a Ni­cea, lo inaugura il 20 maggio 325, e afferma in apertura: «Quanto a me, considero temibile come una guer­ra, come una battaglia, e più diffici­le a perdersi, ogni sedizione interna della Chiesa di Dio e la pavento più che le guerre esterne». Il concilio ri­solve le questioni religiose, si con­clude con la condanna di Ario e l’ap­provazione del simbolo di Nicea, il credo cristiano che non cambierà più. La professione di fede entra a far parte delle leggi imperiali. La Chiesa si apparenta in questo mo­do all’impero e al suo capo, finisce col farsi plasmare dalla mentalità e dalla cultura giuridica, che sfiora la sfera della dottrina e della teologia. La gerarchia indulge all’uso del me­todo giuridicizzante anche nel defi­nire principi e verità teologiche. Se questa opera è necessaria per man­tenere l’unità delle genti cristiane, è vero che si attenua l’orizzonte mi­sterico nel quale la rivelazione si in­serisce, diminuiscono la flessibilità e la delicatezza con cui si dovrebbe parlare dell’ambiente e della di­mensione del divino. L’assimilazio­ne della mentalità romana rischia di introdurre nella religione del libro un formalismo che non giova alla so­stanza del suo messaggio. L’intreccio con il diritto prosegue senza soste, con risvolti ambigui e fecondi al tempo stesso. Il diritto ro­mano e il diritto canonico sono stru­menti utili per civilizzare popoli e terre d’Europa, per creare istituzio­ni ecclesiastiche stabili, disciplinare la Chiesa. Quando l’Europa si fa a­dulta, inizia un cammino inverso, che non cancella il diritto canonico, ma inizia ad abbattere strutture au­toritarie e ingiuste, riconosce i dirit­ti dello Stato che si emancipa dalla Chiesa, avvia un processo di spiri­tualizzazione della Chiesa nel quale siamo tuttora immersi. C’è un bilancio quasi impossibile da fare, e che sarebbe affascinante: ciò che il diritto ha dato alla Chiesa, e ciò di cui l’ha privata, ciò che la Chie­sa ha dato al diritto, ciò che l’ordi­namento canonico può lasciare sen­za perdere la propria identità. «Il battesimo di Costantino», affresco di Raffaello Sanzio nei Museo Vaticani (1520-24)
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