giovedì 18 settembre 2014
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Dal «qui non si butta via niente» al «costa meno comprarlo nuovo». La parabola del nostro consumo (e consumismo) familiare sta compresa tra i due aforismi, distanti tra loro soltanto un mezzo secolo. Il primo fu caro alle nonne, che staccavano i bottoni ai cappotti consunti prima di gettarli via; il secondo ce lo ripetono a ciglio asciutto i nostri figli non appena si guasta un frullatore.Da quando poi l’elettronica ha riempito la pancia dei nostri utensili più banali, ma rendendone incomprensibile il funzionamento, la miniaturizzazione dei componenti ha scoraggiato non solo ogni residua velleità di autoriparazione, ma spesso persino l’intervento dei tecnici specializzati: «Signora, qui bisogna cambiare tutta la scheda...». Perché una cosa è mettere le mani su un aggeggio meccanico, che – per quanto complicato sia – conserva quasi sempre una sua comprensibilità e persino riproducibilità; un’altra è addentrasi nei meandri infiniti di circuiti riconoscibili soltanto a suon di sigle marziane.Riparare insomma non conviene più: è difficile e lungo, dunque costoso.Non solo: il continuo aggiornamento degli oggetti – si pensi soltanto alle annuali nuove uscite degli smartphone – rende impellente il loro ricambio, spesso addirittura senza nemmeno attendere il guasto del modello precedente... A che pro aggiustare qualcosa che è e resterà comunque vecchio, obsoleto, e dunque destinato a futura sostituzione? È così che ci siamo abituati alla pratica del cosiddetto «usa e getta», anzi in molti casi essa ci viene presentata come un vantaggio, addirittura un risparmio: «costa meno» buttar via piuttosto che riutilizzare, riciclare, riparare. Povere le nostre nonne: oggi sarebbero derise come sprecone, oltre che passatiste.Eppure qualcuno che si ribella a tale abitudine, che rischia di travolgere ogni settore del vivere trasformandosi in cultura, ancora esiste. La solita America, patria dei consumisti compulsivi, ha fatto da apripista con il movimento Fixers, iniziato in una galleria d’arte di Brooklyn dove alcuni ragazzi si riunivano a riparare gratis elettrodomestici; oggi i gruppi sono diffusi in ogni città, grazie anche ai Fixers Collective (raduni mensili itineranti dove chiunque può portare i cocci dei suoi aggeggi tecnologici da sistemare), e hanno figliato il sito internet iFixit, che raccoglie dagli stessi utenti e ridistribuisce a tutti consigli e «trucchetti» per le riparazioni fai-da-te di qualunque oggetto – oltre a stilare classifiche dei telefonini catalogati secondo la facilità di riparazione e non più solo in base alle performance digitali.In Olanda sono nati invece i Repair Café, sorta di bar-officine dove insieme alla birra si trovano postazioni di lavoro, attrezzi di ogni tipo, una libreria di manuali e riviste di bricolage, nonché la compagnia di avventori esperti e disponibili a fornire consulenza... La rete si è già diffusa in una quarantina di punti, anche in Francia, e qualcosa di simile si trova al Bower Reuse and Repair di Sidney, Australia. Quanto all’Inghilterra, c’è voluto un italiano – il piemontese Ugo Vallauri – in società con Janet Gunter per creare Restart Project, all’insegna dello slogan Repair, dont’ despair («Ripara, non disperare»). L’iniziativa è itinerante e si avvale dei Restart Party, feste dove si aggiusta di tutto e si scambiano soluzioni; il progetto ha anche un sito web che vorrebbe trasformarsi in piattaforma di «volontariato della riparazione», per collegare i molti interessati al tema (YouTube d’altronde offre già una fornitissima videoteca di fai-da-te pratico – i cosiddetti tutorial – per quasi tutte le esigenze di bricoleur).
Più strutturale l’iniziativa dei Verdi della Svizzera, che l’anno scorso hanno richiesto al governo di incentivare le riparazioni degli apparecchi elettronici con maggiori informazioni ai cittadini e iniziative legislative sui fabbricanti: riciclare i rifiuti anche tecnologici va benissimo, però «prima occorre ottimizzare la durata di vita dei prodotti stessi, i quali vanno progettati per essere solidi e facili da riparare». Non è più un mistero, infatti, che l’«obsolescenza programmata» (copyright Serge Latouche) degli elettrodomestici è una prassi normale per l’industria: uno studio dell’università di Aalen (la Germania, patria della «solidità indistruttibile»!) ha appurato che, se una lavatrice negli anni Novanta aveva una vita media di almeno 12 anni, oggi è costruita per durarne 3 (non appena scade la garanzia di legge: guarda caso...), con un danno economico procurato ai consumatori di 100 miliardi di euro nell’ultimo decennio.Come al solito, l’Italia si accoda un poco in ritardo all’esempio dei riparatori esteri; eppur si muove. Nei giorni scorsi, ad esempio, la Rete Civica Italiana ha lanciato una petizione on line al ministro per lo Sviluppo economico per «promuovere la produzione di oggetti riparabili»; non si sa quale esito possa avere l’iniziativa, che ha già raccolto qualche centinaio di adesioni, ma di sicuro indica un’inversione di tendenza: «Chiediamo di impegnarsi per indurre le aziende e le industrie non solo ad essere più attente al risparmio energetico e al rispetto dell’ambiente nei loro cicli produttivi, ma anche a progettare oggetti più duraturi e quindi riparabili e a scoraggiare l’usa e getta ponendolo tra le pratiche di un modello economico e sociale incompatibile con la nostra stessa sopravvivenza».A Milano Lambrate è sorta RIgeneriAMO, officina finanziata da Fondazione Cariplo e promossa dalla ong Istituto Oikos per recuperare gratis oggetti, reinventandoli pure col supporto di giovani designer. Ma qui si va oltre la frontiera dell’aggiustaggio; al cui interno resta invece la catena di franchising iRiparo, rete ormai ben diffusa di punti cui bussare per guarire computer e cellulari in pezzi; nata nel 2009 come sito internet per l’auto-assistenza di utenti Apple, oggi i negozi garantiscono interventi su molti altri marchi.Risparmio, rispetto dell’ambiente e delle risorse naturali, incentivo alle conoscenze e al saper fare, cultura della sobrietà... Sono molti i valori aggiunti della riparazione, cui la rampante tecnologia 3D darà sicuramente ulteriore impulso: infatti in molti settori non sarà più nemmeno necessario ricorrere alla ricambistica canonica, perché si potranno riprodurre sulla stampante casalinga i pezzi da sostituire. Ed è un bel segnale che la designer Frida Doveil abbia scelto proprio l’Italia per lanciare nel 2013 il suo progetto di ricerca «R-riparabile»: un censimento delle iniziative esistenti e un premio per le 50 idee più innovative in materia. «La riparabilità – scrive Doveil nel suo manifesto – ben al di là dall’essere intesa come mero fatto funzionale, va guardata come modello di riscrittura della relazione (in crisi) con gli oggetti. Ammettere la riparabilità significa restituire valore all’intelligenza necessaria a progettare gli oggetti e alla fatica di produrli, e tornare a coltivare le conoscenze necessarie per conservarli». Le nonne che rammendano nel loro angolino non alzano nemmeno la testa, ma sembrano sorridere.
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