Confesso che ho varcato la soglia di questa mostra fatta con opere delle collezioni private bresciane, con un misto di trepidazione e di nostalgia. Questa, sulla carta, era la mostra che oggi forse Testori avrebbe voluto fare come bilancio d’una vita di amorosi studi. Ma questa mostra sembra quasi ignorarlo. Il critico davvero grande è colui che riesce, con la sua interpretazione, a performare lo sguardo di quelli che, dopo di lui, si troveranno di fronte a un artista o a un’opera che le sue stesse parole hanno tratto dall’ombra o reso finalmente comprensibile. In un certo senso, il critico si comporta come un’ostetrica, aiuta la realtà a nascere di nuovo cambiando il nostro modo di vederla. Testori era certamente un critico di questa levatura. E la sua scrittura ha sempre cercato di resuscitare con le parole una certa “realtà” dell’artista e dell’opera con cui si misurava. Basta ricordare
Il gran teatro montano che raccoglie gli scritti su Gaudenzio Ferrari, uscì da Feltrinelli nel 1965 ed è stato ripubblicato pochi anni fa con note di Marzio Pieri e del sottoscritto. In quell’anno a Brescia si tenne la mostra del Romanino e, l’anno dopo, Testori pubblicò il saggio
Giacomo Ceruti. Lingua e dialetto nella tradizione bresciana. Fu uno snodo storico-critico decisivo, Testori muoveva sempre più dalle “periferie”, anche quelle della storia dell’arte contrapposte alle «superbe mitologie rinascimentali», ed è un percorso che dai saggi su Gaudenzio approda direi con impetuosa naturalezza, proprio alla questione riassunta nell’opposizione tra lingua e dialetto.Non c’è spazio, né tempo, per diffondersi su questi argomenti da sempre dibattuti quando si parla di Testori. Il fatto è che la mostra bresciana scampanella forte anteponendo al vero titolo i quattro moschettieri bresciani, tre nativi doc e un milanese presto battezzato e cresimato col soprannome di Pitocchetto. La cura un altro bresciano, quel Davide Dotti, meno che trentenne, che un paio d’anni fa finì sotto le luci della ribalta smascherando la bambocciata mediatica dei cento disegni attribuiti a Caravaggio da due spericolati Indiana Jones dell’arte alle prese col fondo Peterzano del Castello Sforzesco. Vittorioso nella singolar tenzone il giovane Dotti – che ha frequentato il santuario di Firenze, quello della Fondazione Longhi – salì di grado e gli venne affidata la roboante mostra
Da Caravaggio a Canaletto, niente di meno che al Museo di Belle Arti di Budapest.
Enfant prodige? Stiamo a vedere. Certo è che il testo che firma per l’introduzione al catalogo edito da Silvana è assai convenzionale, diligente nel descrivere l’articolazione della mostra. Sprazzi di vita, pochi. Ma veniamo al dunque. Riascoltiamo Testori per capire. Romanino, il «“cagnaroso” Romanino» che parla una «lingua sbilenca, “sbotasata” e “sgalvagnata”» (fa pendant con le madri “strangosciate” del Paracca a Varallo); ancora: «il dialetto, la grande “parlata” bresciana diedero, col Romanino, uno scossone confuso, disordinato, ma possente; a tal punto che sembrarono retrocedere dalla posizione già di lingua autonoma cui li aveva condotti il Foppa, a quella, gutturale e borborigmica, intasante e gigantesca, degli anonimazzi valligiani; o dei preistorici camuni presi e letti per segni di chissà quali stregonesche barbarie».
Lingua estrema: quella del Romanino e dei bresciani, cui Testori cerca di conformarsi, come se anche quel giudizio critico uscisse, come un riflusso gastrico, dalla loro stessa parlata. È qui, nel Romanino, uno snodo che collega e svincola insieme, la «stregonesca barbarie» del Foppa, con l’epica degli stracci del Ceruti che Testori definì «l’Omero dei diseredati», e sul quale, alla fine della sua vita, aveva avuto qualche ripensamento, in particolare riguardo alla sua pittura religiosa, poiché lo stigma della polvere e degli stracci che Longhi gli aveva impresso sembrava perdersi in una inautentica formalità.Ebbene, si entra a Palazzo Martinengo e si ha un sussulto di fronte al dittico di
San Giovanni Battista e
Santo Stefano del Foppa, sembra di star davanti a due sculture tribali, due feticci, con quelle carni livide, quei volti animaleschi e deformi quasi come in un ritratto di Bacon. Sono due reliquie, due corpi glorificati dal sacrificio e dalla morte; due
revenants. Si continua con la
Visitazione del Moretto, ma il timbro foppesco riappare in un’altra tela del Bonvicino,
La Madonna, il Bambino e san Rocco, le carni illividite da una premonizione del sacrificio futuro, e quel singolare intreccio tra le dita del figlio e quelle della madre, particolare di evidente valore simbolico, come di uno sposalizio nel dolore, cui corrisponde, poco più in là, l’
Incoronazione della Vergine con quel paesaggio lunare sul fondo che sembra quasi precedere la comparsa dell’uomo sulla terra.Finalmente Romanino e la tela con
I santi Pietro, Leonardo e Girolamo, le cui figure somaticamente traslate dalla realtà valligiana, sembrano prendere voce dalle parole stesse di Testori; e si capisce che non si tratta di forme illetterate, perché Romanino ha una formazione pittorica alta, come si vede anche nelle due tavole giovanili coi quattro santi Battista, Agostino, Bartolomeo e Girolamo dove il timbro stilistico deve ancora riscoprire la propria radice terragna.Dopo l’antipasto sostanzioso, uno si aspetterebbe un crescendo di minestre e pietanze, invece la mostra prende tutt’altra piega: i bresciani scompaiono e prevale il tema del sottotitolo (il collezionismo bresciano): si prova un senso di frustrazione, come se dopo un piatto di polenta e formaggi seguisse un brodino di verdure e minestrina. Una carovana di secenteschi certamente capaci di dipingere, ma che poco hanno a che fare con quella lingua dialettale che è l’impronta lasciata da Testori sull’arte bresciana che vive «nell’inestricabilità dalla terra, o terreno, o arso pietrisco, o roccia, o nevaio, o ghiacciaio, di nascita». Si passa attraverso un frastornante brusìo di nani cantilenanti, putti, fiori e frutte fintamente silenti, e si ritorna solo alla fine nel solco testoriano con la pittura della realtà di Ceruti, vedi quel quadro strepitoso che sono le
Donne che lavorano, lavorano ma anche insegnano a leggere alle loro figlie, perché il materno era il fuoco vivo di una società di poveri a cui non mancava il senso della propria grandezza. Viene da dire, considerando l’ampiezza del fosso che separa la prima stanza dall’ultima, che la lezione testoriana è oggi assai poco tenuta in conto dai bresciani e dai loro critici d’arte.
Brescia Palazzo Martinengo CesarescoMoretto, Savoldo,Romanino, CerutiCento capolavori dalla collezioni brescianeFino al 1° giugno