venerdì 28 marzo 2014
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Difficile, a prima vista, pensare a due personalità più in contrasto. Gilbert Keith Chesterton si proclama campione orgoglioso dell’ortodossia cristiana, che per lui coincide alla lettera con la dottrina della Chiesa cattolica. William Blake è il teorico della suprema unità spirituale di tutte le religioni, eterodosso per definizione e talmente impregnato di linguaggio biblico da mettere mano a una serie di “libri” extracanonici: il Libro di Thel, il Primo libro di Urizen, il Libro di Los… Chesterton legge la Bibbia, Blake la riscrive. E se nelle pagine di Gerusalemme Blake esalta l’ipercinetica «emanazione del gigante Albione», nella sua Nuova Gerusalemme Chesterton si accontenta, in modo assai più prosaico, di passare in rassegna le insidie della nascente questione mediorientale.I due sono diversi, diversissimi. Eppure ad accomunarli interviene un elemento più forte di ogni eventuale discrepanza o incomprensione. È l’immaginazione, la dote sorgiva che Northrop Frye pone al centro del suo magistrale studio su Blake (Agghiacciante simmetria, 1947). L’immaginazione è principio vitale e momento di sintesi rispetto all’immediatezza della percezione, è superamento del dato di natura e punto di contatto fra l’umano e il divino. Ma è anche, secondo il pensiero tomista entusiasticamente rivendicato da Chesterton, la facoltà con cui la mente si apre verso l’esterno, «perché le immagini che cerca sono cose reali». Per entrambi gli autori, nessun segno si esaurisce in sé. Parola o immagine, tutto significa. [...]Ad attirare Chesterton verso Blake sono anzitutto i difetti, primo fra tutti la ricorrente e a tratti inspiegabile alternanza fra genio e grossolanità. È un rischio che l’instancabile Gkc riconosce in se stesso (chi scrive molto sa di non poter scrivere sempre bene) e che considera ormai alla stregua di una malattia professionale. Come Blake , inoltre, Chesterton preferisce le «grandi idee» alle «frasette da due soldi» ed esercita questa predilezione in un secolo ostile alla grandezza, propenso alla triste circolazione di spiccioli intellettuali. [...]Chesterton non è diventato un pittore, ma se ce l’avesse fatta sarebbe forse stato un pittore della famiglia dei Blake, tanto irriducibile al proprio tempo da meritarsi la qualifica di pictor ignotus che il primo e più importante biografo dell’artista, Alexander Gilchrist, volle sul frontespizio dei due robusti volumi apparsi nel 1863. Il punto, però, è che è impossibile diventare come Blake. La sua opera respinge l’imitazione, sia pure meticolosa ed elegante. Con Blake si tratta sempre di prendere o lasciare. Tutto, grandezza e difetti, nobiltà e pazzia. Di questo Chesterton è perfettamente consapevole, se non altro perché lui stesso, negli anni della sua oziosa permanenza alla Scuola di belle arti, ha valutato l’opportunità di mettersi sotto «la guida di intelligenze più alte e più abili, in un mondo superiore«. Non era la sua strada, per questo non l’ha seguita, eppure in qualche modo ha continuato a considerare Blake come il presagio di un destino che non si è compiuto. All’indistinto dello spiritualismo Chesterton ha preferito in modo non equivoco l’esattezza del realismo cristiano, così come è testimoniato nella storia dalla Chiesa di Roma. Se mai avesse dovuto sbagliarsi, però, è come Blake che avrebbe sbagliato: tracciando una linea netta, mancando il bersaglio con mano sicura.
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