mercoledì 1 febbraio 2017
Un mese dopo la tragedia del 1912, lo scrittore inglese analizza i «fattori umani» del naufragio: la troppa sicurezza nei propri mezzi, ma anche l’inatteso riapparire di istintivi sensi di fratellanza
Chesterton: il Titanic siamo noi
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La tragedia del grande naufragio è troppo spaventosa per prestarsi ad analogie di pura fantasia. Ma l’analogia che balza in mente tra la grande nave moderna e la nostra grande società moderna che l’ha prodotta, questa analogia non è una fantasia. È un fatto; un fatto forse troppo grande e chiaro perché l’occhio lo colga facilmente. La nostra intera civiltà è proprio come il Titanic; simile nella sua potenza e nella sua impotenza, nella sua sicurezza e nella sua insicurezza. Dal punto di vista tecnico, se le precauzioni fossero sufficienti o meno è materia da inchiesta tecnica. Ma dal punto di vista psicologico, non può esserci dubbio che un’elaborazione e un sistema tanto vasti generano un assetto mentale che è più inefficiente che efficiente. A parte la questione se ci sia qualcuno da biasimare, rimane il grande fatto eccezionale: che non c’era nessuna ragionevole proporzione tra la quantità di accorgimenti per il lusso e la frivolezza e la quantità di accorgimenti per il bisogno e la disperazione. Il progetto ha fatto di gran lunga troppo per la prosperità e di gran lunga troppo poco per l’angoscia; proprio come lo Stato moderno.

(...) Un uomo rozzo che va per mare in una piccola barca può fare ogni altra sorta di errori: può obbedire alla superstizione, può bersi troppo rum, può ubriacarsi, può annegare: ma, cauto o avventato, sbronzo o sobrio, non riesce a dimenticare che sta in una barca e che una barca è una bestia altrettanto pericolosa quanto un cavallo selvaggio. Le linee stesse della barca hanno la rapida poesia del pericolo; lo stesso portamento e movimento della barca sono quelli di una cosa assalita. Ma se fai la tua barca tanto grande che nemmeno sembra una barca, ma piuttosto una specie di stabilimento balneare, questo non mancherà, secondo la più profonda conformazione nella natura umana, di generare un atteggiamento mentale meno vigile. Un aristocratico a bordo di una nave che viaggia con un garage per la sua automobile si sente quasi come se stesse viaggiando con gli alberi del suo parco. Le persone che se ne stanno nei caffè all’aria aperta con liquori e cubetti di ghiaccio si allontanano dal pensiero di una rivolta degli elementi tanto quanto sono lontani dal pensare a un terremoto sotto all’Hotel Cecil.

Il processo mentale è del tutto illogico, ma è del tutto inevitabile. Naturalmente, sia i marinai che i passeggeri sono intellettualmente consapevoli del fatto che in mare le automobili sono spesso meno utili delle scialuppe di salvataggio e che i cubetti di ghiaccio non sono un antidoto agli iceberg. L’uomo però è governato non solo da ciò che pensa ma anche da ciò a cui sceglie di pensare; e le scene e immagini che penetrano in noi giorno dopo giorno tingono le nostre menti di ogni tinta tra l’insolenza e il terrore. Questo è uno dei mali peggiori in quella separazione estrema tra le classi sociali che contraddistingue la nave moderna e lo Stato. Ma che i nostri sfortunati simili sul Titanic fossero o no affetti più del necessario da questa irrealtà della prospettiva originale, non possono aver avuto meno istinto della realtà di quanto ne abbiamo noi che siamo rimasti a terra vivi; e ora che sono morti sono molto più reali di noi. Essi hanno conosciuto quello che giornali e politici non sanno mai: di che cosa l’uomo è fatto davvero, e che razza di cosa sia la nostra natura al suo meglio e al suo peggio.


È questa strana, fredda, frivola incapacità di concepire come una cosa è, che fa capolino in così tanti luoghi, perfino nei commenti a questo dolore sbalorditivo. Si mostra nello spiacevole caso della signorina Sylvia Pankhurst, la quale, immediatamente subito dopo il disastro, sembra che si sia affrettata ad assicurare il pubblico che agli uomini non si doveva riconoscere alcun merito per aver ceduto le barche alle donne, perché questa in mare è 'la regola'. Se questa fosse una cosa graziosa da dire da parte di un’allegra zitella a 800 vedove in un’ora tanto cupa non è cosa di cui valga la pena occuparsi qui. Come il cannibalismo, è questione di gusti. Ma quel che soprattutto mi lascia stupefatto nel commento è l’assoluta mancanza dei rudimenti del pensiero politico che rivela. Che cosa la signorina Pankhurst immagina sia una 'regola': una specie di basilisco? Centinaia di uomini si trovano, nel preciso e letterale significato del proverbio, tra il diavolo e il mare profondo. È loro compito, se riescono a convincersene, accettare il mare profondo e resistere al diavolo. Che cosa la signorina Pankhurst suppone che una 'regola' possa fare per loro in un’evenienza del genere? Pensa che il capitano multerebbe di sei pence ogni uomo che esprimesse la preferenza per la propria vita? Le sarà capitato di pensare che la centesima parte della popolazione della nave avrebbe potuto gettare in mare il capitano e tutte le autorità? Ma l’osservazione della signorina Pankhurst, per quanto sciocca, è rivelatrice.

Ora che vedo la maniera abietta e idolatra in cui ella usa la parola 'regola', comincio a capire la maniera abietta e idolatra in cui ha usato la parola 'voto'. Ella non riesce a vedere che le volontà e non le parole controllano gli eventi. Se mai si trovasse in un incendio o in un naufragio con uomini al di sotto di un certo standard morale europeo, scoprirà presto che l’esistenza di una regola dipende da se le persone possono essere indotte a obbedirle. È inutile fare regole se i tuoi sottoposti possono disobbedirti e ti disobbediscono. E se la parola 'regola' è usata nel senso più ampio di tentativo di mantenere un certo livello di comportamento privato per rispetto dell’opinione pubblica, possiamo soltanto dire che non solo questo è un vero trionfo morale ma è, nelle nostre attuali condizioni, un trionfo piuttosto sorprendente e rassicurante. È esattamente questo spirito di corpo che lo Stato moderno ha trascurato pericolosamente. C’era probabilmente più istintiva fratellanza e più sentimento di identici interessi, non dico su un antico mercantile ma sul veliero di un antico pirata, di quanto ce ne fosse tra gli emigranti, gli aristocratici, i giornalisti o i milionari che sono salpati per morire insieme nella grande nave. Che essi abbiano scoperto in un modo così crudele la loro fratellanza e il bisogno che l’uomo ha del rispetto del suo prossimo, è un fatto spaventoso ma sicuramente l’opposto di un fatto degradante.

(traduzione di Umberta Mesina)

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