venerdì 2 ottobre 2020
Fino al 25 ottobre, al Museo archeologico una mostra sugli sviluppi germanici della corrente fondata da Monet & C. Ma è ora o di rimettere in discussione le categorie e gli stereotipi critici
 Ulrich Hübner, “Travemünde I” (1920)

 Ulrich Hübner, “Travemünde I” (1920)

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Le due parentesi entro le quali leggere l’interpretazione che da un secolo ruota attorno alla superiorità della pittura francese dell’Ottocento rispetto a quanto si è visto in Europa e oltre tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX, potrebbero essere rappresentate - per rimanere alla critica italiana - da Roberto Longhi e Federico Zeri. Il primo non aveva dubbi che nessun macchiaiolo potesse competere con i grandi dell’impressionismo francese, da cui anche il 'Buonanotte, signor Fattori'; al contrario, il suo discepolo eretico, Zeri, invece era straconvinto che la nostra pittura di quell’epoca non avesse quasi nulla da invidiare ai francesi e fu uno dei promotori più assidui della riscoperta dell’Ottocento italiano (e non solo: ricordo che nel 1998, pochi mesi prima di andarsene, durante un breve soggiorno a Mentana mi decantò, per esempio, la grandezza paritaria di Alma-Tadema). In questi ultimi decenni il mercato dell’Ottocento italiano è molto cresciuto, anche se non ha raggiunto le vette quasi idolatriche dell’impressionismo francese. È inutile girarci attorno: i francesi aprirono una strada, ma furono anche quelli che la percorsero fino in fondo rimanendo primatisti del genere. Si può dunque parlare di "impressionismo tedesco" come titola la mostra in corso ad Aosta, nel Museo Archeologico Regionale? Fino a un certo punto. In ogni caso, non ci si deve nascondere che il titolo ha un valore di marketing: l’impressionismo, come sappiamo, è un volano formidabile per attirare pubblico, se poi si aggiunge l’aggettivo "tedesco", si promettono nuove scoperte a chi voglia recarsi al museo per vedere questa mostra curata da Daria Jorioz. E qui si pone la seconda ragione della mostra: praticamente sono state spostate in blocco settantadue opere del Landesmuseum di Hannover. Confesso che se da un lato m’intrigava il titolo, dall’altro ero molto perplesso nell’apprendere dagli apparati della comunicazione che si trattava dell’ennesimo tentativo di spacciare per mostra di studio ciò che invece è frutto di un accordo fra musei - di cui non voglio sindacare i motivi -, secondo uno schema che dura da vent’anni e più, ed è diventato un costume a mio parere molto discutibile. Milano, nella fattispecie Palazzo Reale, propone da tempo mostre a ripetizione nate dallo schema del prestito museale complessivo.

Mi soffermerò, dunque, soltanto sull’evocazione intrigante del titolo e sul tentativo, non so se claudicante ma certamente poco probatorio, di dimostrarlo con le opere. La curatrice, che è anche direttrice del Museo, ha subito messo in chiaro che l’espressione "impressionismo tedesco" è una categorizzazione cara alla parte germaanica, ma si tratta di una scelta che lei stessa condivide, e lo motiva - anche in catalogo (Silvana editoriale) - chiamando in causa, per così dire, un orizzonte più vasto che dovrebbe illuminare una rete planetaria dove il fenomeno dell’impressionismo si confermi come il primo movimento artistico internazionale, quindi non soltanto europeo, ma anche russo, americano, canadese... Idea che riapre un dibattito interminabile, ma che si potrebbe riassumere con una domanda paradossale: 'E se l’impressionismo fosse solo un’astrazione e come poetica pittorica non esistesse affatto?'. Anche la curatrice della mostra ricorda che il termine ebbe una origine negativa: fu partorito dalla penna di un giornalista francese davanti al quadro di Monet Impression, soleil levant (1872) oggi visibile come "feticcio" del Museo Marmottan di Parigi. Si potrebbe dire, dunque, che l’impressionismo sia nato da un quadro dipinto all’alba, che rappresenta il porto di Le Havre avvolto in una nebbiolina di quelle che, nel Nord della Francia, rendono il paesaggio struggente e fascinoso. In realtà, Monet e Pissarro erano emigrati a Londra mentre infuriava la guerra franco-prussiana, e lì fra Turner, le prime nebbie londinesi dipinte da Whistler e la scoperta decisiva che le ombre proiettate sulla neve riverberavano sulla superficie "impressioni" colorate, tornarono a Parigi a guerra finita rielaborando le loro intuizioni.

Certamente l’en plein air è una delle connotazioni fondamentali di ciò che chiamiamo impressionismo, ma in quell’intorno d’epoca, anche fuori dalla Francia, altri sentivano il bisogno di lasciare lo spazio chiuso dell’atelier per aprirsi al nuovo verbo di un rapporto con la natura da tradurre in valori pittorici. Basta questo per dire che l’impressionismo ha diffuso ovunque il suo modus operandi? Daria Jorioz cita, fra le teste di serie francesi, Monet, Pissarro, Renoir, Manet (che non si considerava affatto un impressionista, nonostante il Déjeuner), Sisley e... Degas. Ma quest’ultimo ha rifiutato l’impressionismo come categoria e come appartenenza, per lui la pittura era arte di convenzione e la risolveva solo nel suo atelier, che aveva i vetri annebbiati dallo sporco perché il pittore non amava gli effetti della luce diretta (e a proposito degli artisti che dipingevano all’aperto e alla moda dell’en plein air, disse che c’erano troppe correnti d’aria nell’impressionismo). Degas, ma anche Manet, sono i principali esponenti di una discontinuità rispetto all’impressionismo.

La studiosa evoca, tra i critici italiani, Renato Barilli, il quale diciotto anni fa curò a Brescia proprio una mostra sull’"impressionismo italiano". E dieci anni prima, cogliendo il vento di rilancio dell’Ottocento sul versante mercantile (ma anche come riscoperta di un orgoglio pittorico italico), aveva allestito una retrospettiva sui nostri pittori che operarono nella prima metà del XIX secolo. È evidente che se si vuole sostenere qualche consentaneità coi francesi sarebbe forse più opportuno cercarla fra gli scapigliati - e il loro precursore, il grandissimo Giovanni Carnovali più noto come Piccio - anziché fra i macchiaioli (la verifica si potrà fare di nuovo fra poco vedendo la mostra che si aprirà a Padova, a Palazzo Zabarella, sul gruppo toscano). Ma il vento della critica segue le mode proficue. Non a caso, nel 2013, l’Orangerie di Parigi allestì, con uno staff di curatori quasi esclusivamente italiano, la mostra: Les Macchiaioli 1850-1874: des impressionnistes italiens? La risposta al punto interrogativo poteva essere del tutto paradossale: certo, però a patto che ammettiamo tutti che l’impressionismo non esiste. Esiste tuttavia un modo di dipingere, che magari si avvale dell’esperienza nella natura - ma il ciclo delle Ninfee dipinto da Monet a Girverny va ben oltre qualsiasi ipotesi impressionista, poiché sarebbe facile collegarlo con le visioni alchemiche di qualche esoterico cultore dei segreti del cosmo e delle forze oscure dell’universo (comprese quelle della bellezza, della luce - materia ineffabile - e della simbiosi fra pittura e natura, che non determina una poetica naturalistica, ma esattamente il contrario: la visionarietà).

E qui, concludendo, torniamo alla mostra, la cui struttura è tripartita: pionieri del paesaggismo tedesco; focus sui tre maggiori "impressionisti tedeschi" (Liebermann, Slevogt e Corinth); infine i discepoli e gli epigoni di questa poetica. Manca, a mio modo di vedere, qualche esempio che documenti meglio i precedenti nel realismo tedesco. La prima sezione, dove è esposto un bellissimo paesaggio di Anselm Feuerbach che raffigura la Manneporte presso Etretat del 1860, per quanto lo si voglia considerare "tradizionale" rispetto all’idea impressionista, è tuttavia un frutto distillato di esperienza e costruzione mentale che non ha nulla di anacronistico per l’epoca (certo sarebbe stato molto diverso se accanto a quadro di Feuerbach ci fosse stato quello di Monet, con lo stesso soggetto, conservato al Museo D’Orsay); splendidi anche i due piccoli paesaggi di Blechen e Bromels che hanno per tema le rocce di Tiberio a Capri e le paludi Pontine; la prima apertura al tema si ha con un dipinto di Hans Thoma (1891), dove l’impressionismo è come suggerito dal movimento del viandante che sembra salire verso il cielo, ma il modo impressionista è dato piuttosto dalla forma del banco di nuvole all’orizzonte. Un discorso a parte meriterebbero le opere grafiche di Liebermann e di Corinth, ma riguardo alla pittura di quest’ultimo è più difficile parlare di impressionismo solo per il modo di operare del pennello che destruttura le forme: il ritratto femminile intitolato Rococò - dove è evidente che il titolo ha trasferito la propria sostanza dall’intaglio della cornice alla divertente connotazione pittorica del personaggio - ci dice che il rococò è ormai un tema più dell’umano che del gusto estetico. Il gruppo di paesaggi più interessante dipinto da Liebermann è del 1915, cioè molto avanti per ricadere nell’impressionismo (rispetto al quale, del resto, sembrano assai autonomi).

Gli altri autori - segnalo un piccolo paesaggio di barche nel porto di Travemünde (Lubecca) di Ulrich Hübner (1920) - non seguono affatto la lezione francese, se non in senso lato, e questo ripropone la questione di fondo che presiede alla mostra: non esiste un impressionismo internazionale, esistono declinazioni nazionali e personali di un nuovo modo di mettere in rapporto la natura, la modernità e la pittura. Per cui l’unica mostra oggi auspicabile sarebbe quella che decostruisca l’impressionismo fino alla sua negazione, ovvero nelle dissonanze, personali e nazionali, e ricomponga i pezzi del mosaico in una nuova rivelazione del modo di vedere il mondo in Europa e oltre in un’epoca che va dal 1870 al 1915. Il resto è la facile moltiplicazioni di uno stereotipo fortunato, ma sempre meno consistente.

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