domenica 14 marzo 2010
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Guarda indietro Riccardo Chailly. E riflette. «Su come la mia vita sia stata un avvicinamento progressivo al grande mistero della morte» dice lasciandoti per un attimo disorientato. Poi ti spiega. Perché il direttore d’orchestra milanese ha ben impresso nella memoria quell’incontro. E lo racconta ancora con un nodo in gola. «È avvenuto il 24 dicembre del 2002, nella notte, quando se ne andò mio padre Luciano. Non ero lì accanto a lui perché il lavoro mi tratteneva ad Amsterdam: il giorno dopo c’era la diretta tv del Concerto di Natale del Concertgebow, l’orchestra che dirigevo allora». Chailly si ferma un attimo. Poi riprende. Con la stessa profondità che avverti nella sua musica. Che senti nel suo Bach e nel suo Mendelssohn. «Avrei voluto essere da tutt’altra parte. Avrei voluto che la musica, mia compagna di vita, tacesse e lasciasse spazio solo al silenzio. Invece fui costretto a confrontarmi con Stravinskij e con la Sagra della primavera. Posata la bacchetta mi isolai dal mondo. E pensai. Al di là della verifica tragica del vuoto assoluto che resta dopo una così grande perdita, è stato lì che mi sono posto il problema della mia morte, che mi sono fatto la domanda su cosa accadrà quando toccherà a me». E che risposta si è dato, maestro Chailly?«Sul momento nessuna che potesse essere definitiva. Ci ha pensato poi la vita. Qualche anno fa ho avuto un problema legato al cuore, piccole cose, subito risolte che, però, mi hanno preoccupato. Quando sono stato ricoverato d’urgenza ho fatto passare tutta la mia vita. Ho rivisto i miei valori. Aver fatto i conti con il limite dell’uomo mi ha cambiato. Anche se ho cercato di non diventare schiavo della malattia, di non sentirmi "vittima" di una situazione che era fuori dal mio controllo». E dove ha trovato la forza di reagire?«Sono sempre stato un credente in ricerca. Confrontarmi con grandi pagine sacre, penso su tutte alle Passioni di Bach, mi ha aiutato. In questa occasione la musica è stata una medicina eccellente: appena ho potuto, sono tornato sul podio con una grande fiducia nel futuro».Lei dal dolore ha tratto una speranza, ma le cronache, anche recenti, vanno in un’altra direzione. Cosa significa fare musica quando ci sono Haiti e il Cile, quando la crisi mette a dura prova le famiglie?«Le confesso che provo un senso di impotenza. Mi chiedo perché la musica non possa fare nulla di concerto. Poi rispondo facendo musica, facendo sì che la mia gioia personale, quella che provo quando sono sul podio, possa diventare una gioia collettiva. Non mi ritrovo nell’atteggiamento di molti musicisti che pensano che un concerto possa risolvere un problema politico o lenire un dolore fisico. E ho un senso di lieve disprezzo verso chi crede questo perché mi accorgo che in quei momenti l’umanità ha bisogno di ben altro che di un concerto. Chi fa musica è un privilegiato perché può sognare, staccarsi dalla realtà. È questo che siamo chiamati a fare: aiutare le persone a nutrire una speranza».E lei in cosa spera?«Nonostante tutto nell’uomo. Sono convinto che l’andamento della nostra vita sia conseguenza diretta della moralità (o immoralità) dell’uomo chiamato in prima persona a dare un’impronta decisiva alla storia. Certo, il compito è difficilissimo perché ogni giorno siamo chiamati a lottare con un nemico acerrimo, la televisione, una vergogna nazionale, responsabile dello svuotamento di valori della nostra società. Una schiavitù che ci tiene legati».Lei ha mai dovuto sacrificare la sua libertà? Si è mai sentito "incatenato" a qualcuno o a qualcosa?«Posso ritenermi privilegiato per non essere mai stato legato a nessuno in un mondo dove tutto procede per schemi di appartenenza. Ho sempre preferito smarcarmi dal pensiero comune per avere la possibilità di costruirmi autonomamente le mie idee. Come artista ho sempre ritenuto che la cosa più importante fosse quella di essere libero da obblighi che altri vorrebbero imporre».Avrà dovuto pagare un prezzo alto...«Direi di no, perché la libertà non ha prezzo. Perché oggi non sento di essere dipendente da nessuno. Poter dire di no – e non mi pento di quelli che ho detto – mi ha sempre permesso di seguire i miei desideri, le mie ambizioni, i miei progetti».Detta così, sembra la ricetta della felicità. Ma da dove le viene tutta questa serenità?«Dalla mia storia. In musica sono stato precoce: ho diretto il mio primo concerto a 13 anni. Certo, ho avuto momenti di irrazionale entusiasmo giovanile, ma aver iniziato presto mi ha aiutato a trovare un modo per non disperdere la mia gioventù. Certo, se si potesse rinascere e rifare il nostro percorso con la consapevolezza acquisita negli anni tutto sarebbe diverso. Ma la vita è un continuo confronto quotidiano con il pericolo e la tentazione».Qual è stata la più grande che ha dovuto affrontare?«Il successo. Per un musicista che vive di continuo il rapporto con il pubblico dovrebbe essere un elemento di verifica. Ma spesso diventa pericoloso per chi lo ritiene un punto di arrivo e non una tappa di un cammino: prima del successo c’è un percorso che è fatto anche di sofferenza. È chiaro che il successo gratifica, mentirei se dicessi il contrario, ma dura una frazione di secondo, poi sparisce».Si è mai sentito solo?«Molte volte. Ma la definirei una solitudine artistica per il fatto di non essere capito all’interno di un luogo, di un ente nella realizzazione di un progetto. Ma in questi momenti non ho mai sentito la solitudine umana. Ho sempre trovato conforto nella mia famiglia. In mia moglie, un punto fermo nella mia vita. Un grande dono: non posso che leggere così questa presenza. Di fronte alla vertigine che poteva prendermi dall’essere artisticamente solo, la mia famiglia mi ha sempre dato l’equilibrio, l’affetto di cui ogni uomo ha bisogno».
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