giovedì 18 luglio 2013
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​L’ho sentito l’ultima volta per telefono: mi chiedeva se avessi ricevuto il suo libro di poesie, Alla luce del sole, e se lo avessi letto. Gli dissi di no: e che l’avrei fatto prestissimo, come per ogni cosa sua. Invece non c’è stato tempo: e l’atto mancato mi rimarrà come l’ennesimo rimorso d’una vita di corsa, la mia, detestabilissima, che non ha più luogo per l’amicizia vera, com’era la nostra, e per le verità importanti. Vincenzo Cerami (morto ieri a Roma, dopo la malattia lo aveva colpito quasi due anni fa) era un uomo bellissimo, di prepotente e generosa vitalità: mi resterà per sempre quel suo sguardo vigile e febbrile, curioso sino all’esaltazione, quella sua capacità di parlare a tutti con chiarezza, di raccontare i segreti di un’officina – l’officina della scrittura senza aggettivi, poco importa se letteratura o cinema – di cui s’è protestato sino all’ultimo umile artigiano: lui che invece poteva legittimamente contarsi tra i più importanti scrittori italiani attivi. Una moralità, la sua, che si risolveva nel fare: e rigorosissima, come dimostra la serietà e l’allegria con cui s’è impegnato nell’opera di divulgazione del suo mestiere in qualità di insegnante sempre disponibile e in libri quali Consigli a un giovane scrittore. Narrativa, cinema, teatro, radio (1996). Dentro una disponibilità a misurarsi con la vita nella più larga apertura di compasso: basterebbe pensare che ha fatto persino il rugbista (ala di mischia, per intenderci) e, mentre tutti conoscono l’aiuto-regista di Pasolini, lo sceneggiatore di Monicelli, Citti, Bellocchio, Giuseppe Bertolucci, Amelio e, soprattutto, del Benigni anche da Oscar, quello del celebratissimo e assai discusso La vita è bella (1997), con cui la piccola Italia ha riguadagnato fama mondiale, pochi sanno che non ha avuto difficoltà a cimentarsi anche col più facinoroso western all’italiana. Dobbiamo poi ricordare film memorabili come Segreti segreti (1985) e I cammelli (1988), I ragazzi di via Panisperna (1989) e Porte aperte (1990)?Bellissimo e generoso Cerami, dicevo: e – ne sono sicuro – anche felice, come uomo e come artista. Nonostante denunciasse una vocazione all’ipocondria che gli derivava – lo raccontava con un’ironia talvolta esilarante – dall’essere nato il 2 novembre e dall’aver preso il nome – Vincenzo, appunto – da un fratello morto prematuramente, sulla cui tomba era costretto a piangere ogni anno, per la ricorrenza dei morti, proprio il giorno del suo compleanno. Ricordavo Pasolini: che gli fu professore alle medie di Ciampino e che lo rivelò a se stesso e alla letteratura. È con Pasolini, in effetti, che Cerami ha avuto un dialogo ininterrotto e decisivo, molto più problematico e polemico di quanto non si creda e non faccia credere l’ammirazione sconfinata che ha sempre manifestato per lui. Già a partire dal primo – e bellissimo – Un borghese piccolo piccolo (1976): che è di sicuro, quanto a Pasolini, un omaggio, ma anche una coraggiosa, lucidissima resa dei conti, che ha a che fare con una diversa lettura della storia d’Italia. Che cosa voglio dire? Che nei pasoliniani Ragazzi di vita (1954) e Una vita violenta (1958) resiste ancora una fede tenace nel Popolo e nelle sue possibilità di riscatto, proprio quelle che Un borghese piccolo piccolo incenerirà. Che altro è il romanzo d’esordio di Cerami se non la constatazione della morte del Popolo e d’una deriva senza ritorno? E una presa d’atto che quella morte si risolveva nella nascita della Gente, di cui avvertiva l’efferatezza senza ritorno, nonché il destino telecomandato. Se posso dirlo, Cerami è stato, in questi decenni, forse insieme al solo Ferdinando Camon, il più avvertito e disincantato dei nostri scrittori a vocazione antropologica, di un’antropologia della disperazione, certo, ma mai civilmente arresa. Leggetevi La lepre (1988), L’ipocrita (1991) e, soprattutto, il feroce Fattacci (1997). Epperò, anche ridurlo a questa sola tradizione, sarebbe operazione critica ingenerosa. Cerami era un narratore inquieto, disposto al rischio e alla scommessa: e, negli ultimi anni, sempre più aperto alla sperimentazione – di strutture più che di stile –, come dimostrano libri quali Fantasmi (2001) e La sindrome di Tourette (2005).Ecco perché, se oggi tutto il mondo celebra il professionista di cinema, io vorrei rimarcare soprattutto la grandezza dello scrittore, a volte conculcato e depresso proprio a scapito dello sceneggiatore. Uno scrittore limpidissimo, franco, implacabile, senza sconti: e solo apparentemente facile. Perché moralmente arduo: e difficilissimo.
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