martedì 2 novembre 2010
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Fra i tentativi posti in essere dal Piemonte per appianare i contrasti con la Santa Sede e per tentare in extremis una riconciliazione con il Papa, un significato tutto particolare ebbe, verso la fine del 1860, l’iniziativa del conte di Cavour di intraprendere trattative riservate con la Segreteria di Stato vaticana, attraverso la mediazione di due influenti personalità del mondo romano, il medico Diomede Pantaleoni e l’abate Carlo Passaglia. Il governo sardo, per poter indirizzare secondo il suo ambizioso progetto politico il movimento di unificazione nazionale già in atto, riteneva opportuno, per motivi di politica internazionale, fare il possibile per guadagnare alla sua causa Pio IX o almeno fare in modo che l’opinione pubblica sapesse che si era fatto di tutto per arrivare a un accordo con il Papa. Del resto, lo stesso Cavour confessò a un amico, che gli mostrava l’impossibilità e l’inutilità dell’impresa, di non dare molto peso alla sdegnosa contrarietà a trattare degli ambienti vaticani: «Le dichiarazioni generiche di conciliazione che io farò, ci renderanno vieppiù favorevole la pubblica opinione». La vicenda Pantaleoni-Passaglia, studiata sulle fonti vaticane da Pietro Pirri e Giacomo Martina, è importante dal punto di vista storico per due motivi. In primo luogo, tale mediazione fu voluta e attivata non da sovrani, ma direttamente dal presidente del Consiglio sabaudo, conte di Cavour, pare su sollecitazione del ministro Marco Minghetti. Egli sperava, alla riapertura della Camera, di portare davanti ad essa un progetto di accordo con il Papa tendente a risolvere, da una parte, la difficile «questione religiosa» e, dall’altra, quella riguardante i possedimenti dello Stato della Chiesa. In secondo luogo, questa vicenda fu una delle poche occasioni in cui Pio IX e Cavour, seppure in modo indiretto, entrarono in contatto; in tale circostanza il Papa ebbe l’opportunità di cogliere quasi dal vivo il pensiero politico dello statista piemontese sulla materia della separazione tra la Chiesa e lo Stato. Fa effetto – scrive Martina – immaginare Pio IX al suo tavolo di lavoro, che scorre la relazione del Pantaleoni: «Questa volta egli non scrisse nessuna osservazione: che restasse pensoso, in parte almeno combattuto nell’intimo fra due sentimenti opposti»: il sentimento di italiano, che in una fase della sua vita aveva sinceramente creduto nell’indipendenza della nazione dal dominio straniero, e quello di Papa, interessato a tutelare i diritti imprescrittibili della Chiesa e l’integrità del suo Stato. Il Memorandum conservato nell’Archivio Vaticano, che fu presentato al Papa, sottolineava che la causa principale della divisione era dovuta non tanto all’irreligiosità dei liberali, quanto all’avversione da parte della Santa Sede a principi politici ormai largamente diffusi tra gli uomini di cultura. Esso prospettava 1’ineludibile necessità per la Chiesa di riconciliarsi con la modernità e arrivare a un accordo con gli Stati liberali; in tal modo il suo ministero sarebbe stato più efficace e apprezzato da tutti. Trattando poi della questione politica, il Memorandum affermava che il potere temporale, più che una garanzia per l’esercizio del magistero pontificio, rappresentava ormai soltanto un ostacolo per la missione spirituale della Chiesa. Lo Stato dal canto suo si impegnava ad assicurare al Papa, anche attraverso leggi particolari, la piena autonomia e libertà nell’esercizio del suo ministero spirituale, secondo il principio di «libera Chiesa in libero Stato». Della trattativa in corso Cavour teneva costantemente informato Napoleone III. L’imperatore seguiva con vivissimo interesse lo sviluppo dell’iniziativa piemontese e riteneva che la Santa Sede non poteva rinunciare interamente al proprio Stato senza avere nulla in cambio. Egli perciò suggerì che le possibilità di successo del negozio sarebbero state maggiori se il Piemonte avesse offerto al Papa, in cambio di gran parte del suo Stato, la cessione degli Abruzzi o, meglio ancora, della Sardegna, in modo che il Pontefice avesse un luogo sicuro dove rifugiarsi nel caso che il soggiorno romano, per qualche ragione, diventasse per lui impossibile. In realtà, nonostante le insistenze piemontesi, né Pio IX né il cardinale Antonelli presero mai sul serio l’idea di una rinuncia pontificia al potere temporale. Va ricordato inoltre che il Papa nutriva nei confronti di Cavour un’antipatia viscerale, sia a motivo della legislazione duramente anticlericale applicata con rigore dal suo governo nel regno di Sardegna, sia perché lo considerava, in materia religiosa, più vicino alle idee dei protestanti che dei cattolici. In realtà, la formazione giovanile del conte di Cavour, in particolare negli anni ginevrini, lo aveva indirizzato verso una concezione molto libera e personale del fatto religioso. Ciò che il conte vagheggiava era una Chiesa cattolica rinnovata, o meglio «ammodernata» secondo le idee liberali e ringiovanita, in un regime di separazione, cioè di libertà; una Chiesa non più nemica – egli disse più volte – ma alleata dell’Italia e protetta dalle armi italiane e non già da quelle straniere. Insomma, Cavour aveva un’idea secolare, mondana, della Chiesa e la concepiva soltanto all’interno delle categorie della politica; invece Pio IX considerava ogni cosa, anche le questioni di natura politica, innanzitutto sotto il profilo religioso e all’interno della millenaria tradizione della Chiesa: approcci diversi, insomma, e incompatibili da ogni punto di vista. Ecco perché la missione piemontese, che pretendeva di convincere il Papa ad abbandonare il potere temporale in cambio di garanzie sulla propria indipendenza e libertà di azione (in ambito spirituale) e a convertirsi al liberalismo, era destinata al completo fallimento.
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