domenica 20 dicembre 2015
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Il record c’è, ma non è ancora assoluto. Martedì 22 dicembre Cesare Cavalleri festeggia i cinquant’anni ininterrotti alla direzione del mensile Studi Cattolici. Mezzo secolo non è uno scherzo, ma l’interessato annuncia di voler fare di meglio: «Il primato rimane a monsignor Andrea Spada, al timone dell’Eco di Bergamo per 51 anni. Sono determinato a superarlo». L’incrocio degli anniversari è ancora più ricco. L’anno prossimo Cavalleri compirà 80 anni, per esempio, ma la sua è anche la più longeva tra le firme di Avvenire: «Credo di essere rimasto l’unico a scrivere ininterrottamente dal 1968 – dice – e questo mi risulta un po’ strano. Per molto tempo, nella mia vita, sono stato il più giovane della compagnia. Adesso invece mi ritrovo nella parte del veterano». Nel 1965, quando il ventinovenne Cavalleri ne assume la direzione, la redazione di Studi Cattolici si è appena trasferita da Roma a Milano: «La rivista era nata come bimestrale nel 1956 – spiega –. Io collaboravo già come critico letterario e, più sporadicamente, con interventi di argomento economico. Perché la mia formazione è e rimane quella: economia statistica. Nonostante tutto, il mio immaginario ha ancora molto di matematico». Il boom economico, il Concilio Vaticano II: il 1965 è un anno di grandi speranze. «Verissimo, ma nella realtà accade quello che Stendhal descrive nella Certosa di Parma: non ci si rende mai conto di trovarsi in un frangente storico straordinario. Era, in ogni caso, un momento di grande fervore, anche dal punto di vista culturale. Personalmente ero rimasto molto colpito dall’affermarsi della Neoavanguardia. Tra gli effetti positivi del Gruppo 63 va annoverato, se non altro, l’avermi convinto a non scrivere più poesia. Milano era una città effervescente, che dava la sensazione di una modernità mai sperimentata prima. C’era la metropolitana e questo, per me che non ho mai guidato l’automobile, era un simbolo di quel tempo felice. Le frange estremiste esistevano già, ma si aveva l’impressione che fossero facilmente controllabili. Quella che è venuta in seguito è stata tutta un’altra storia». E nella Chiesa che cosa stava succedendo? «La rivista, così come le Edizioni Ares che la pubblicano, è sempre stata vicina all’Opus Dei, senza mai assumere né rivendicare la funzione di organo ufficiale. Di sicuro, però, dal Concilio Vaticano II veniva la conferma, al più alto livello, di una serie di istanze da sempre carissime alla spiritualità di san Josemaría Escrivá de Balaguer: la chiamata universale alla santità, la valorizzazione del laicato. Questo non poteva non renderci felici. Contestualmente, rimanendo fedeli alla scelta di restare sempre dalla parte del Papa, ci siamo subito accorti di come, nel racconto dei media, stesse crescendo una sorta di Concilio parallelo, in virtù del quale si spacciavano come acquisizioni conciliari quelle che erano tutt’al più posizioni parziali e personali. Paolo VI era intervenuto in maniera più che tempestiva con la celebre premessa alle Lumen Gentium, nella quale si chiariva la posizione del Papa rispetto al Concilio, ma l’equivoco è proseguito per molto tempo. Se penso a certi commenti giornalistici al recente Sinodo dei vescovi, direi che dura tuttora». Com’è cambiata in questi cinquant’anni la funzione delle riviste culturali? «Le riviste, in sé, non hanno mai avuto una funzione di tipo creativo. Anche le testate storiche del primo Novecento, come Lacerba e La Voce, sono state importanti in quanto hanno messo in moto un processo, assecondando e favorendo l’attività dei loro redattori. Anche per questo, si è trattato di esperienze di breve durata. A Studi Cattolici abbiamo subito puntato sull’alta divulgazione, rivolgendoci non al grande pubblico ma ai leader d’opinione. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di far circolare le idee». Anche collaborando con altre realtà culturali? «La collaborazione è difficile, specie in ambito cattolico. Ognuno è persuaso di essere portatore di una peculiarità da preservare a ogni costo». Eppure su «Studi Cattolici» hanno scritto anche intellettuali insospettabili. «O che tali appaiono oggi. Penso a Raimon Panikkar, che ha collaborato sulla rivista durante il suo periodo di appartenenza all’Opus Dei e che ho avuto la fortuna di frequentare con assiduità. Quanto ad Adriana Zarri, i suoi interventi su Studi Cattolici conservano ancora oggi tutta la loro intelligenza e li ripubblicherei tali e quali. Con il tempo, però, le sue posizioni sono cambiate, ha sviluppato una visione eremitica del laicato che, a mio parere, ha poco a che vedere con il laicato correttamente inteso. Tra i narratori e i poeti, infine, non possono essere dimenticati Mario Pomilio, Fortunato Pasqualino, Elio Fiore ed Eugenio Corti: aver portato in libreria il suo capolavoro, Il cavallo rosso, è uno dei maggiori meriti dell’Ares». Che cosa l’ha divertita di più in questi anni? «Il periodo dal 1968 al 1983, durante il quale sono stato il critico televisivo di Avvenire. Per “Canzonissima” scendevo a Roma il sabato con un aereo del primo pomeriggio, assistevo alla registrazione al Teatro delle Vittorie, scrivevo il pezzo in tutta fretta, lo dettavo al telefono e tornavo a Milano con l’aereo della sera. Prima di andare a casa, passavo in redazione per ritirare una copia ancora fresca di stampa del quotidiano della domenica. Era una modernità molto artigianale, ma affascinante». Guarda ancora la tv? «No, ho smesso da tempo. Ormai non ci sono più programmi, è rimasta solo la televisione».
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