venerdì 27 febbraio 2009
Il figlio del leader dell’unica «repubblica» partigiana del Sud, in Calabria nel 1945, denuncia il «tradimento» operato dai comunisti. Pasquale Cavallaro sarebbe stato sacrificato per tenere segreti i piani del partito sulla presa del potere con la forza dopo la liberazione. Ma il militante era stato usato pure dai servizi segreti Usa per sbarcare armi per la Resistenza. E parte dei mitra li tenne per la «rivoluzione»...
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La storia scritta dai figli non è mai la migliore premessa per una ricostruzione obiettiva delle opere dei padri, o almeno per allontanare nel lettore i sospetti di parzialità. Ciò non significa tutta­via che il volume Operazione «Armi ai partigiani» , appena stampato dalla calabrese Rubbettino (pp. 190, euro 14), non abbia i suoi me­riti. Per esempio nella divulgazione di documenti inediti e informazio­ni interessanti sulla cosiddetta «Repubblica di Caulonia»: l’ano­malo e brevissimo (durò solo 5 giorni) esperimento di «repubblica partigiana» che nel marzo 1945 in­teressò la cittadina in provincia di Reggio Calabria. L’autore? Alessan­dro Cavallaro, appunto il più giova­ne figlio di Pasquale, protagonista incontrastato di un episodio che fece gridare – da una parte – al so­cialismo finalmente realizzato in I­talia e – dall’altra – al bolscevismo sbarcato sulla punta dello Stivale. Le novità su cui Cavallaro junior punta per una rivoluzionaria ri­comprensione storica di quella mi­nuscola e originale «comune» sorta nel Mezzogiorno sono già espresse in copertina: le «armi ai partigia­ni », appunto, e «i segreti del Pci». Due elementi che, equamente di­stribuendo tra destra e sinistra col­pe e ipocrisie, farebbero stagliare la figura del Cavallaro padre come quella di un solitario e disinteres­sato eroe (o forse vittima) schiac­ciato tra i contrapposti giganteschi schieramenti. Pasquale, in realtà, è un personaggio arduo da decifrare al di fuori di alcune categorie del­l’atavico ribellismo meridionale: disertore nella Grande Guerra ma per questioni d’orgoglio, uomo d’azione inesausta e nello stesso tempo maestro dalla scrittura am­pollosa, antifascista anche perché oppositore del sistema feudale dei latifondisti, comunista ma alleato degli Alleati... Nel luglio 1942 Ca­vallaro – leader del locale movi­mento clandestino di opposizione al regime – venne infatti contattato dai servizi segreti Usa per occupar­si dello sbarco notturno e del tra­sporto di armi destinate ai parti­giani del Nord. Fu probabilmente per tale attività che l’uomo, dopo l’arrivo dei liberatori in Calabria nel settembre 1943, ricevette il be- nestare alleato a diventare sindaco di Caulonia, nonostante fosse co­munista. Ma intanto parecchi di quei mitra erano rimasti al Sud e il 5 marzo 1944 spuntarono al collo delle improvvisate milizie della nuova «Repubblica». La quale – a dar retta alla ricostruzione di Ales­sandro Cavallaro – sarebbe stata un’iniziativa spontanea, non volu­ta dal padre, e tuttavia diede spun­to ad attività che a qualche supe­riore direttiva dovevano pur obbe­dire: dal giacobino «tribunale del popolo», riunito in pianta stabile a giudicare i fascisti (e i possidenti) locali, al sequestro dei carabinieri nella locale stazione, all’uccisione del parroco – a detta dell’autore accidentale e dovuta a rancori per­sonali. Almeno in questa parte, in­somma, la descrizione risulta piut­tosto «innocentista» nei confronti del suo principale attore. Il merito dello storico va però cercato altro­ve, e cioè nella segnalazione di un secondo aspetto finora sottaciuto: i rapporti tra Cavallaro e il Pci, o meglio la solitudine in cui le strut­ture e i dirigenti comunisti lascia­rono il militante in quei momenti di difficili scelte, «scaricandolo» poi anche all’epoca del processo celebrato contro di lui nel 1947. Il leader calabrese vi fu condannato a 8 anni, al termine dei quali – tra risarcimenti in denaro (poco) e ri­chiami all’ideale – Umberto Terra­cini riuscì a convincerlo a tenere la bocca cucita sui trascorsi piani se­greti del partito: «Se i compagni – gli scrisse infatti il politico comuni­sta in una lettera del 1953, inedita e pubblicata ora nel volume – si so­no armati sottraendo parte delle armi che dovevano arrivare ai par­tigiani, all’epoca è stato giusto. Non si poteva sapere come sareb­bero andate a finire le cose». La ri­volta di Caulonia dunque, secondo il figlio, sarebbe stata opera di «quel movimento armato che Ca­vallaro aveva organizzato per ordi­ne del partito comunista», il quale però (dopo essersene assunto per breve tempo la responsabilità at­traverso i suoi dirigenti provinciali) giustificò la repressione e abban­donò il sindaco «a se stesso, per­mettendo persino che gli si gettas­se addosso l’accusa di mandante dell’assassinio del parroco»; infatti «il partito si era piegato alla 'ne­cessità' di sacrificare Cavallaro e tutto il movimento per dimostrare ai partiti borghesi che il Pci era affi­dabile... ed era pronto a sedersi con loro attorno a un tavolo per ri­solvere pacificamente i problemi del Paese». Insomma, «Cavallaro e­ra diventato scomodo... sapeva molte cose», tra cui le responsabi­lità del partito negli omicidi di al­cuni fascisti e agrari, e perciò «qualcuno aveva bisogno che Pa­squale sparisse dalla circolazione per un bel po’ di tempo. I comuni­sti o gli americani? O, forse, tutti e due insieme? Entrambi avevano molto da nascondere». Una cassa di documenti sequestrata; le fre­quenti visite che i pezzi grossi del partito (da Secchia a Pajetta) face­vano periodicamente all’ex com­pagno, morto nel 1973; un docu­mentario Rai girato nel 1990 sulla «repubblica di Caulonia» e mai an­dato in onda... Sembrano altrettan­ti indizi rafforzativi dell’esistenza di un possibile segreto che comun­que, «per tener fede alla grande fe­de » (come aveva scritto una volta a Togliatti), Cavallaro non tradì mai.
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