martedì 7 gennaio 2014
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Con la crisi economica attuale, sono emersi i limiti del nostro sviluppo che si era consolidato a partire dagli anni Sessanta del passato secolo. Peraltro ereditando questioni irrisolte della stessa nostra storia nazionale. Quali furono le analisi ed i paradigmi interpretativi che vennero elaborati, nel ventennio degli anni Sessanta e Settanta, per analizzare le grandi trasformazioni socioeconomiche che coinvolsero tutto il nostro Paese? Quali forze, che consistenza esprimevano i grandi aggregati sociali scaturiti da quella impressionante crescita economica? Come si poté parlare, allora, di vero e proprio «miracolo economico» e di neocapitalismo?Con l’espressione Italian Theory, titolo di un interessante volume di Dario Gentili (vedi box a fianco), si tende ad individuare le differenti linee interpretative di quel «pensiero italiano» che in quegli anni collaborò alla mobilitazione di vaste aree popolari verso un futuro affluente. Diverso dalle passate epoche della nostra storia nazionale, spesso e volentieri dilaniata da lotte corporative e di fazione. Così Gentili descrive un lungo percorso di elaborazioni teoriche che, dal Rinascimento ad oggi, hanno caratterizzato nel nostro Paese molte ricerche politologiche e filosofiche. Aggiungeremo anche nel più ampio spettro le altre scienze sociali. Così da Machiavelli, passando per Vico, arrivando ai contemporanei Gentile, Croce e Gramsci, ma anche ai teorici dei «giochi oligarchici» come Mosca e Pareto.

Nell’interessante volume è descritto il complesso insieme degli studi e dell’impegno militante di giovani intellettuali ed operai, che ha costituito una vera e propria «peculiarità italiana». Esso sarebbe composto da uno stretto collegamento tra vita degli umani, storia e politica. Proprio a partire dal decennio degli anni Sessanta, in Italia vengono delineati due decisivi paradigmi socioeconomici, tra loro fortemente differenziati nei giudizi sulla stessa formazione storica del capitalismo italiano.Il primo aggregato di differenti correnti di pensiero concordava sulla centralità e decisività dei caratteri di arretratezza delle strutture materiali e culturali della società italiana. Un altro aggregato di paradigmi, più industrialista ed operaista, dava maggiore importanza a quello sviluppo neocapitalistico che emergeva in quegli anni nel nostro Paese. Enfatizzava una decisiva «centralità operaia» che sarebbe stata in grado di capovolgere quella rapida crescita economica e ricercava non ben definiti poteri delle masse lavoratrici. Erano queste masse ritenute «centrali», in grado di ricomporre un nuovo blocco sociale alternativo alle vecchie forme di dominio.

Lungo questi passaggi analitici, nel libro si collocano anche le crisi dei differenti «marxismi italiani» e le differenti analisi del pensiero sociale cristiano, specialmente quei filoni conflittualistici che si ponevano all’interno di ampie categorie sindacali dell’industria, come i metalmeccanici. Al tempo stesso, nel libro è scarsamente descritto il collegamento tra le dinamiche economiche e le elaborazioni anche simboliche, poetiche ed ideologiche che si formulavano in quegli anni di straordinaria crescita neocapitalistica. Penso alle profonde e drammatiche riflessioni di Pier Paolo Pasolini.

Certamente l’Italia tra gli anni Cinquanta e Settanta fu una «nuova Italia». Scientificamente attrezzata, producendo nuove analisi industrialiste. Da Giorgio Ruffolo a Tronti, da Adriano Olivetti ad Enrico Mattei, dai Progetti governativi sulla programmazione democratica alle analisi sulla composizione delle macchine in fabbrica elaborate dai nuovi gruppi militanti di Quaderni Rossi e Classe Operaia. Non vanno dimenticate le edizioni Adelphi promosse nel 1963 da alcuni raffinati intellettuali provenienti dall’editrice Einaudi, quali Luciano Foà e Bobi Bazlen assieme al giovane Roberto Calasso, poi direttore editoriale dal 1971. Costoro immisero, in un’Italia da loro ritenuta «provinciale», la grande cultura mitteleuropea della «crisi» del soggetto umano, da Nietzsche a Musil a Freud a Wittgenstein.

Il libro non coglie a sufficienza i limiti di semplice contributo di questi studi e di quelle proposte organizzative, che non approdarono mai a una completa e alternativa linea politica generale e di governo. A quasi cinquant’anni di distanza ci accorgiamo, però, che più solide furono nel lungo periodo le analisi storiciste espresse da uomini politici come Amendola, Togliatti, De Gasperi ed Ernesto Rossi, che – al di là di profonde diversità culturali – convergevano nel giudizio preoccupato verso quella oscura «razza padrona» che aveva prodotto, da lungo tempo, un capitalismo nostrano tecnicamente «straccione». Infatti ben presto tutto decadde e diventò, com’è ancora oggi, società «liquida».Certo i colossali mutamenti nello sviluppo pervasivo delle automazioni tecnologiche, sino ai social network, fanno comprendere come effettivamente ci siano state profonde trasformazioni, anche di tipo neocapitalistico. Il tutto è accaduto in modo rapidissimo nel nostro Paese e piuttosto disordinatamente. I processi di globalizzazione collocano queste dinamiche strutturali su scala molto più vasta della stessa Italia. In questo scorrere dei tempi lunghi, nel dibattito italiano, sono emersi elementi di denuncia di crisi morale profonda e di mutamenti antropologici imprevisti.

Gentili riporta i lavori di Marramao, Cacciari, Esposito ed Agamben attorno ai temi nuovi delle dinamiche biotecnologiche, della differenza sessuale, dei tanti «vitalismi» biopolitici. Nuove dinamiche scientifiche emerse negli ultimi trent’anni, ancora in connessione ai nuovi mutamenti strutturali prodotti dalle alte tecnologie informatiche. Ma non si mette bene in luce, anche questa volta come negli anni Sessanta, l’incapacità di queste elaborazioni nel dare contributi che abbiano la forza di trasformarsi in indicazioni di governabilità politica.

Fallimento, dunque dell’Italian Theory e dei suoi intellettuali? Rispetto alle ambizioni di «supposti primati europei» degli studi italiani nelle scienze umane, ipotesi in un certo senso sottesa nel libro in questione, certamente sì. Nelle linee di fondo, però, del pensiero filosofico e sociologico italiano, Gentili continua a scorgere – e noi siamo d’accordo con lui – stimoli profondi in grado di leggere i differenti nodi, irrisolti, del lungo «caso» italiano.

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