martedì 2 agosto 2022
Torna in libreria "L'osso, l'anima", la raccolta più riuscita del poeta nato cento anni fa: la tendenza a concentrare il dettato in pochi versi dalla vena epigrammatica e dal sapore presocratico
Bartolo Cattafi

Bartolo Cattafi - archivio

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Il 6 luglio scorso si è festeggiato il centenario della nascita di Bartolo Cattafi, poeta messinese tra i più intensi della cosiddetta «quarta generazione» (quella di Turoldo, Zanzotto, Pasolini, Spaziani e Giudici). È un autore da sempre tenuto forzosamente ai margini del canone, ma sta ricevendo ai nostri giorni una destata attenzione– una sorta di renaissance – grazie all’editore Le Lettere che ha pubblicato nel 2019 il volume complessivo Tutte le poesie (a cura di Diego Bertelli, introduzione di Raoul Bruni) e che oggi rimanda in stampa la silloge più riuscita, L’osso, l’anima (pagine 378, euro 23), ancora con la curatela di Bertelli, il quale firma anche una poderosa introduzione e un commento conclusivo dedicato alla storia, alle caratteristiche e ai significati di un 'classico del Novecento'. Quinta raccolta di Cattafi, edita da Mondadori nel 1964 con la bandella critica di un giovanissimo Raboni, L’osso, l’anima ha nel titolo il suo objective correlative, eppure la giustapposizione appare franta, schizofrenica, quasi impossibile. Proprio perché 'l’anima', che dantescamente è sul punto di trasmodare, non può essere in alcuna maniera racchiusa «nel concavo, / in un osso»: essa altresì «dilata / deforma questi oggetti della terra, / carica le cose d’assoluto». Si presentano immediatamente le due caratteristiche precipue della lirica cattafiana: l’acuminata tensione metafisica (contraria alle istanze del simbolismo orfico e della purezza ermetica) e la straordinaria, petrarchesca coincidenza «dei suoi versi con la propria storia umana», come evidenzia Bertelli, in una ricerca della verità di forte respiro morale. «Uomo prima che letterato», disse Caproni in una circostanza, Cattafi intende la poesia come completamento del sé storico e, per tale ragione, la modella su antinomie, opposizioni, ossimori e adynata in grado di comprimere tassonomia e indeterminatezza, adesione e dissenso in un unico crogiuolo. Engagé nel setacciare l’invisibile oltre le tenaglie del male, energicamente colpito dall’arte figurativa, Cattafi è sulle tracce di Dio – un Dio biblico – sebbene sia eroso dal dubbio che prende forma attraverso perplesse interrogazioni: «Creandosi fratture / pause, vuoti, interstizi / tra un’ora e l’altra / e dentro una stessa ora / risalgono immagini dal fondo / silhouettes che la triste mano / accarezza vellica dispone / sulla dura parete dirimpetto. / Ma un dubbio s’affaccia. / Chi sono dunque gli ospiti? / Essi che vengono a ripetere / le parole perdute / o noi entrati / nell’altra scatola, / dentro l’altro orizzonte». Centrale, in tal senso, è il testo 'Libero arbitrio' che aduna in sé le più alte virtù stilistiche della poesia di Cattafi: le espressioni mentaliste e astratte mescolate a una lingua quotidiana, l’utilizzo del noi etico e partecipativo, l’alternanza di versi trisillabi o quadrisillabi e versi più lunghi, l’enumeratio in guisa di asindeto: «Ci piacque / l’uso del libero arbitrio, / pescare con la mente nelle acque / informi del futuro, / credere che i nostri crolli avvengano / nella direzione di Damasco. / Combinati / da tempo incalcolabile intessuti / tra le quinte / l’atto, il minuto, il gelido quadrante, / il dito che si approssima al pulsante / della nostra ora / e tutto ignora sul conto di Damasco». In L’osso, l’anima, inoltre, si avverte la tendenza a concentrare il dettato in poche battute che assumono una vena gnomica, epigrammatica, dal sapore presocratico. Specialmente nella seconda parte del florilegio, dove la rima – più guizzante e improvvisa – gioca quel ruolo chiarificatore ravvisabile in Ripellino e nell’ultimo Caproni. Si pensi a 'Fuoco': «Era tutto bollente / cibo tazza bevanda / posata recipiente / la tua stessa gola / e lo chiamasti / gli mandasti a dire / che in questo luogo / non c’era fuoco sufficiente». Le trame linguistiche di Cattafi sono ricche di neologismi e storpiature («ariete sprizzaschegge», «cavalloserpe») con una sereniana affezione alle parole che sprigionano un sentimento acre, pungente («calce carbonato», «sabbia polvere sale»). Tutto purché l’indagine sull’inintelligibile non si arresti dinanzi ai severi emblemi del reale, così refrattari a essere sciolti: «Con una maglia di lana, con qualche / fiammifero bagnato. / Gli andammo il più possibile vicino. / Per provocarLo, leggere, tentare».

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