venerdì 1 marzo 2013
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«Signor investigatore, il maggior dono dell’uomo – dopo Dio, la salvezza dell’anima e la fede – è la libertà. La desidero anch’io, come ogni essere di questo mondo, più della stessa vi­ta. Capirà che, se non accetto le sue condizioni per essere liberato, vuol dire che ho qualcosa cui tengo più della vita: la fede in Dio! Io so che la mia sorte è legata a quella della mia Chiesa. Fino a che la Chiesa non sarà libera, neppure io lo sarò, e sop­porterò con gioia tale privazione, che è più dura della morte». Colui che pronunciava queste parole ave­va già assaporato il gusto mortifero e amaro delle prigioni della Romania comunista. Monsignor Ioan Plosca­ru ha trascorso 14 anni nelle mani della Securitate, la polizia segreta del regime di Bucarest: privazioni, insul­ti, percosse, torture, inganni. Soste­nuto sempre, però, da una fede cri­stiana e da una fiducia cristalline. Per la prima volta Ploscaru venne fermato il 29 agosto 1949; era vesco­vo ausiliare greco-cattolico di Lugoj dal 30 novembre dell’anno prima. Il giorno seguente il regime avrebbe messo fuori legge la Chiesa cattolica di rito bizantino (causando «un ter­rore che assomigliava a quello delle catacombe dei primi cristiani»). Mo­tivo: questa comunità era colpevole dei suoi legami con il Vaticano, ma restava indomita nel non volersi u­nificare in maniera forzata con la Chiesa ortodossa. Plosca­ru, rimesso in libertà nel 1955, venne rinchiuso di nuovo l’anno seguente. Subì una condanna a 39 anni complessivi di reclu­sione e lavori forzati per «tradimento della patria», «istigazione al tradimento della patria», «tentativo di tradimento della patria», «cospirazione contro l’or­dine sociale». Fuor di lin­guaggio carcerario: «A tut­ti noi, sacerdoti e vescovi greco-cattolici, fu offerta la libertà in cambio del passaggio alla Chiesa or­todossa. A me personal­mente proposero diverse volte questo scambio, fin dal mio ar­resto. Ma non si può patteggiare con la propria coscienza». En passant, la Chiesa greco-cattolica romena con­ta numerosi martiri per la fede, ad e­sempio i vescovi Afenie, Frentiu, Su­ciu, Chinezu, Balan e il cardinal Hossu. Non è un messaggio anti­ecumenico (non tutti gli ortodossi si schierarono con il governo «popola­re» di Bucarest, liberticida e filo-so­vietico) quello che affiora ora dalle memorie, finora inedite in italiano, di monsignor Ploscaru, che Edb pubblica con il titolo Catene e terro- re. Un vescovo clandestino greco-cat­tolico nella persecuzione comunista in Romania (pp. 472, euro 30). Un li­bro che si legge con dolore e tremo­re: pare di rituffarsi nelle pagine di Varlam Salamov e i suoi Racconti della Kolyma quando si passa in ras­segna la durezza, spietata fin all’in­verosimile, degli aguzzini motivati dall’ideologia brutale del comuni­smo in versione staliniana. Ma si ri­ceve anche la grazia di apprezzare la resistenza intima, invincibile, stre­nua di un uomo che ha scritto paro­le simili, ripensando ai suoi tre lustri da recluso per Dio: «I primi cristiani avevano i carismi a sostenerli. Noi non abbiamo avuto i carismi, ma abbiamo dovuto calpestare i cuori a colpi di coraggio: c’era solo la fede nuda». Ploscaru, nel suo vagabonda­re carcerario, trova come compagni di detenzione altri cristiani, avventi­sti, protestanti, perfino ebrei e mu­sulmani. Insomma, quanti metteva­no Dio davanti al proprio io. La criti­ca al comunismo del vescovo rome­no, morto nel 1998, è pacata e spie­tata: «Se la filosofia marxista avesse avuto alla base un sostegno morale, un’idea spirituale di trascendenza, non avrebbe distrutto l’umanità del XX secolo in tale misura». Fanno rabbrividire le tecniche di torture che si praticavano nella Romania degli anni Sessanta, a poche migliaia di chilometri da casa nostra: la ba­stonatura alle piante dei piedi con una sbarra di ferro; le bastonate ai testicoli; le battiture con un sacchet­to di sabbia: «All’esterno nulla, ma dentro i polmoni, il cuore, il fegato, i reni erano fortemente danneggiati»; l’isolamento, «a volte più pesante di una bastonatura. Ti chiudevano in una stanza isolata e sul pavimento di cemento versavano l’acqua. Dopo un giorno, i piedi si gonfiavano e il cuore non resisteva più. La vittima o cadeva nell’acqua, o chiedeva di es­sere portata fuori per confessare». Nel suo giacere in prigione – tra u­miliazioni che comprendevano «mangiare le proprie feci, vedersi u­rinare in bocca dai carcerieri, essere costretti a dichiarare di aver pratica­to assi sessuali aberranti con i propri genitori»: quale sadismo! – Ploscaru diventa testimone di veri miracoli: «Spesso gli infedeli, in prigione, di­ventavano credenti, vedendo la ras­segnazione, il silenzio e la fiducia – la gioia, anche – di quelli che prega­vano ». «Quando le nostre guardie scoprirono che non eravamo dei malfattori ma dei sacerdoti incarce­rati per la fede, rimanevano molto stupiti: pur se malvagi, la nostra se­renità li induceva a pensare». Ma il nodo di queste pagine non è tanto la rievocazione di prima mano di cosa fu la persecuzione anti-cristiana, scientifica e programmata, di marca comunista. È soprattutto il dono di una testimonianza di fede indomita, ammirevole, liberante, che mette un po’ a tacere quella che alcune volte viene chiamata «cristianofobia» in Occidente: «Considero le privazioni come i periodi più fortunati della mia vita – annota Plorescu –, in cui ho potuto offrire a Gesù non solo parole, ma anche fatti».
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