martedì 15 giugno 2021
Sono molti gli autori, da Sudbantha a Bajani, che rielaborano un concetto che sembrava acquisito. Il filosofo Coccia: «Nella nuova normalità saremo più domestici e meno urbani»
Casa dolce casa... Ma siamo sicuri che sia ancora così?

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Da Belfast a Bagkok, passando per Torino, Milano, San Paolo, Porto, nell’ultimo anno la pandemia ha cambiato non solo il concetto di casa per come lo conosciamo, ma i connotati stessi dell’abitare. Il rapporto con la casa è divenuto più emotivo e personale, sono cambiate le esigenze pratiche, lo sfruttamento degli spazi, l’efficienza, l’esperienza dell’abitare. Diversi autori, in saggistica quanto in narrativa, hanno scritto in qualche modo sul concetto di casa, in varie forme. Ne è un esempio Sotto la pioggia (Fazi), romanzo d’esordio del thailandese Pitchaya Sudbanthad, che ritrae una Bangkok viva e vitale, girando attorno a una casa che si fa metafora del racconto di un intero Paese e del senso di radici in un mondo che muta rapidamente, mentre il tempo collassa e con esso la memoria, individuale e collettiva. Sotto la pioggia è un romanzo multi-generazionale, che abbraccia epoche diverse, tramandando con uno sguardo intimo riflessioni su cosa significhi per esempio sentirsi alienati oppure outsider in una città anfibio, inquieta e in continua trasformazione. È in costante mutazione anche la storia di 'Io', dell’ultimo libro di Andrea Bajani. 'Io' è un uomo che passa di casa in casa per ricostruire la sua storia tramite i luoghi in cui ha vissuto, tramite i segreti che le mura custodiscono, ma soprattutto attraverso il tempo e la sua topografia interiore, per far sì che nel perimetro della vita che una casa rappresenta, educhiamo noi stessi al mondo, metro quadro su metro quadro. Questo è (in pochissime righe) Il libro delle case (Feltrinelli), nella cinquina dello Strega 2021, e poi c’è l’esordio di Daniele Petruccioli (nella dozzina dello Strega), con La casa delle madri( Terrarossa), in cui ancora una volta le quattro mura trattengono ricordi e fungono simbolicamente da macchina del tempo dell’esistenza. Ambientato interamente nella Belfast dei nostri giorni, invece, è Dolce casa (Atlantide), il libro che ha rivelato il talento di Wendy Erskine, con una raccolta di racconti in cui i percorsi e le storie dei protagonisti si intrecciano in modo apparentemente casuale tra le strade e i quartieri della città, che oggi, secondo Mendes da Rocha, è habitat dell’uomo più della stessa casa. Tutto ciò emerge dai racconti di Erskine, ricchi di umanità e silenzi profondi, che riempiono spazi vuoti di una città complessa ed esistenze stratificate. Di abitare anche in passato hanno parlato in tanti, da Freud ad Augè, passando per Heidegger e Benjamin, così come Kundera in La vita è altrove: «La vera casa non è una gabbia con l’uccellino né un armadio per la biancheria, ma la presenza della persona che si ama». Ma a fianco di queste possibili visioni dell’abitare, vi sono poi quelle di chi disegna ogni giorno, in modo ancora diverso, lo spazio e il tempo dei nostri metri cubi, per ciò che rappresentano internamente ed esternamente, nel rapporto vivo che instaurano con le città. È il caso per esempio del libro di Vittorio Magnago Lampugnani, Frammenti urbani (Bollati Boringhieri), uno dei massimi esperti internazionali di storia della città, che porta a riflettere sul rapporto con gli spazi e gli oggetti del micro-urbano. È il caso anche di un libro che è ormai un classico: Le case che siamo (Nottetempo) di Luca Molinari, ripubblicato a distanza di quattro anni in una versione aggiornata, con un capitolo nato in pandemia e intitolato Le case che saremo. «Casa e città - scrive Molinari - sono legate l’una all’altra, indissolubili in una relazione intima». Ora ci prendiamo cura della casa, perché è stata un micro-mondo (forzato) e ancora minaccia di esserlo al primo errore, tant’è che abbiamo imparato a razionalizzare ambienti e risorse, scoprendone potenzialità e limiti: «La casa - continua Molinari - è diventata un labirinto della mente, che prima era quasi totalmente assorbita dalla vita in quelle città che oggi possiamo solo guardare dalla scena fissa della nostra finestra. La casa non è spazio di libertà, ma luogo funzionale a un sistema in cui molte delle apparenti fughe sono demandate a quel mondo di oggetti che compriamo, di cui ci circondiamo e che dovrebbero aiutare a definire la nostra identità». Eppure casa e città, oltre a essere legate, possono essere anche poli opposti. Molinari cita un’intervista di Nicolas Truong al filosofo Emanuele Coccia, apparsa su 'Le Monde': «La casa non ci protegge, non rappresenta per forza un rifugio, al contrario ci può uccidere. Si può morire di troppa casa. E la città, la distanza che ogni società implica, ci protegge normalmente dagli eccessi d’intimità e di vicinanza che ogni casa ci impone. La casa esiste perché possiamo tornarci dopo essere stati nel mondo». Fa pensare questo cambiamento, soprattutto se si guarda alla fluidità e alla frantumazione dell’elemento casa fino a pochi anni fa, con persone sempre meno legate all’idea di possedere e portate a situazioni di condivisione e delocalizzazione estreme. Oggi invece la separazione tra pubblico e privato, interno ed esterno, tempo del lavoro e della vita, sono dualismi necessari. Anche la Biennale Architettura di Venezia 2021 riguarda in parte questi temi, si intitola 'How will we live together?' (come vivremo insieme?) ed è curata da Hashim Sarkis, in vista delle sfide che il mondo sta lanciando all’architettura. Sul rapporto tra spazio, case e città, sempre per Nottetempo sono infine usciti recentemente due libri: da una parte Dell’organizzazione dello spazio di Fernando Távora, che delinea un’idea di architettura come «opera collettiva di partecipazione » e «creazione di felicità», dall’altra La città per tutti di Paulo Mendes da Rocha, che prova ad analizzare il ruolo cruciale dell’architettura attraverso il condizionamento urbano del presente, ma anche il rapporto con natura, ambiente, geografia e spazio della città, perché «costruendo la città contemporanea realizziamo la più alta aspirazione dell’uomo», ma soprattutto perché «la casa è il rifugio dell’uomo e, per altri versi, il posto in cui le persone si mostrano, si esibiscono e trovano il significato della vita».


«Nella nuova normalità saremo più domestici e meno urbani»

Emanuele Coccia

Emanuele Coccia - Chiste

Da inizio giugno e fino al primo luglio al Monk di Roma è 'Festa della Filosofia', una manifestazione ideata da Tlon per portare la filosofia tra le persone, in un dialogo attivo tra accademia e agorà, per raccogliere la comunità attorno a parole e pensieri, intrecciando e connettendo filosofia e letteratura. Punto di partenza della manifestazione è il verso di Hölderlin «Là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva» e la Festa vuole essere un’occasione per riscoprire la forza di desiderare, per liberarsi dall’impasse del presente. Filo conduttore degli incontri in programma sarà il desiderio, declinato come estetica, politica, etica, fondamenti ed ermeneutica del desiderio. In quest’ultima sezione, tra gli ospiti anche il filosofo Emanuele Coccia, che venerdì 18 giugno terrà una lectio a partire dal suo ultimo libro Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità (Einaudi), in cui rifletterà su quel-l’artefatto psichico che è la casa: non un prodotto architettonico statico, ma un processo di costruzione in costante divenire: «L’idea - spiega Coccia - è quella di interrogarsi sul significato di costruire case, al di là delle ragioni che possono cambiare nelle culture e nei luoghi; costruiamo case per cercare di vivere meglio, non per cambiare il paesaggio». Vivere meglio è ciò che abbiamo provato a fare durante una pandemia che ci ha portati ad addomesticare la casa e interpretarla in modo diverso: «È stato un punto di non ritorno - continua Coccia -, da cui si riparte verso una normalità che non sarà come prima. Abbiamo fatto l’esperienza di vivere per mesi in uno spazio cambiato, perché la città era diventata uno spazio morto, proibito, e abbiamo cercato di riportare dentro casa tutto quello che costitutiva la realtà delle città e ciò per cui le avevamo costruite, ma l’abbiamo fatto in manie- ra affrettata, e quello che credo succederà sarà il tentativo di riportare la casa al suo luogo più sistematico e duraturo. La casa cambierà forma e confini, credo ci sarà sempre di più l’idea di case allargate, esperienze domestiche in cui gli amici avranno un peso sempre più preponderante e l’idea di abitare vicino agli amici, comprare case in centri urbani minori, sarà la via più comune». Nell’ultimo anno, per via della distanza interpersonale, è mutato anche il rapporto con i social. Uno dei capitoli del libro di Coccia è dedicato a questo fenomeno: «Questi mezzi ci permettono di produrre un’esperienza di comunità senza passare da un’esperienza urbana, creando un’idea e un’esperienza di vicinanza diverse, in cui non c’è bisogno di andare fisicamente in un luogo. Questo ci fa allargare i confini delle città in modo radicale». L’attenzione alla casa di questo ultimo periodo da parte di scrittori e intellettuali è un altro tema su cui Coccia spiega quanto sia un processo di medio-lungo termine che la pandemia ha solo accelerato: «Negli ultimi anni abbiamo pensato così tanto alla città che si è trascurata la casa, ma l’esperienza del mondo credo sia sempre più domestica e sempre meno urbana. Il lavoro sarà sempre più domestico e meno pubblico; dopo aver abbattuto le pareti del nostro salotto, ora abbiamo bisogno di trasformare in esperienza fisica il mondo digitale, adeguandone gli spazi». Un ultimo passaggio è sul tema della sostenibilità: «È una questione politica - conclude Coccia - che ha sostituito questioni come il lavoro e la distribuzione della ricchezza. La città sarà uno spazio più aperto anche ad altre specie e si immagineranno corridoi di biodiversità dentro alle città».

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