mercoledì 27 giugno 2018
Intervista al virtuoso delle sei corde e compositore crotonese: «Amo Chopin e Debussy, così come Morricone e Piovani, insomma musica romantica e un po’ nostalgica»
Il chitarrista e compositore Renato Caruso: il suo nuovo album si intitola "Pitagora pensaci tu"

Il chitarrista e compositore Renato Caruso: il suo nuovo album si intitola "Pitagora pensaci tu"

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Da Pitagora a Jobim, da Einstein a Eric Clapton, dal teologo Edwin Abbott a Pino Daniele. A metterli d’accordo tutti, anzi in armonia, c’è la chitarra di Renato Caruso. Sono passati due anni esatti dal precedente album Aram, compendio di sonorità del mondo, e il virtuoso Caruso, che non emette do di petto come il celeberrimo omonimo tenore ma fa cantare ogni sorta di chitarra, ha deciso di sostenere il suo esame di maturità consacrandosi oltre che virtuoso delle sei corde (e oltre) anche sorprendente compositore. Una ricca e ispirata vena melodica che va a braccetto con i suoi funambolici virtuosismi, e a giovarsene è il nuovo album Pitagora pensaci tu che Caruso ha presentato ieri alla Feltrinelli Red di Milano, accompagnato dal percussionista Sergio Buttigè. La title track è diventata anche un videoclip girato allo Spirit de Milan, ex vetreria diventata il regno dello swing e non solo.

Caruso, ci sono molti rimandi e visioni in questo album: quasi una colonna sonora...
«Sì, nei miei pezzi è molto presente l’immagine. Forse perché la musica che io ascolto di più, nonostante abbia solo 36 anni, è ormai solo evocazione di atmosfere lontane e scomparse. Io amo Chopin e Debussy, così come Morricone e Piovani, insomma musica romantica e un po’ nostalgica. Sono un cinefilo e sto molto attento alla sincronizzazione di suoni e immagini. Comunque benché chitarrista ascolto di più i pianisti».

Però nel nuovo album la musica è omaggiata a 360 gradi, dalla bossa nova al reggae, dalla canzone napoletana al valzer.
«Sì, stavolta sono stato più compositore che chitarrista rispetto al passato, ho fatto suonare anche tromba e fisarmonica anziché dare voce solo al mio strumento. Ho cercato più colori e ricchezza espressiva e compositiva da affiancare alla chitarra e a certi miei virtuosismi. Ogni strumento ha il suo mondo sonoro e geografico».

Ma spaziando così tanto non si corre il rischio di non trovare la propria identità?
«Prendiamo Morricone: ha il suo marchio inconfondibile, eppure ha scritto anche jazz, bossa nova, classica, sacra. Un compositore deve saper fare un po’ di tutto, l’importante è lo stile. Certo, nel mio caso è raro trovare colonne sonore composte con la chitarra. Il mio stile? Piccole cellule tematiche. Poche note ma giuste, che emozionino e tocchino le corde del cuore».

Undici brani inediti e due cover in Pitagora pensaci tu, non a caso di Pino Daniele ed Eric Clapton, giganti della chitarra e grandi amici.
«Di Pino, a cui avevo dedicato il mio precedente disco, ho riletto Quando ricevendo i complimenti del figlio Alessandro, che mi ha appena chiamato a suonare per una raccolta fondi organizzata dalla Pino Daniele Trust Onlus. Di Clapton ho ripreso Tiers in Heaven. Del resto la chitarra è stata il mio mondo dall’età di sei anni. In casa ce n’erano dieci appese qua e là, le suonava mio padre, ex docente di filosofia. Mi svegliavo alle sei di mattina per suonare fino alle otto, poi riprendevo tornato da scuola. Se tornassi indietro studierei però parallelamente chitarra e pianoforte, che suono ma solo per comporre. Il pianista ha l’armonia in mano, io l’ho conquistata ascoltando tantissima musica».

Il Pitagora del titolo viene dal papà filosofo?
«Beh, i libri di filosofia occupavano mezza casa. Ma ho scelto Pitagora perché la sua scuola di pensiero era nella mia Crotone e per il suo multiforme ingegno: filosofo, matematico, musicista. È stato Pitagora a scoprire la frequenza, è stato il primo a usare la parola armonia, ha fatto esperimenti con il monocordo, ha scoperto la consonanza e la risonanza. Insomma per me che sono musicista e informatico Pitagora è sommo. In musica l’ispirazione è la base, l’anima. Ma poi tutto diventa numerico. Per questo non bisogna temere l’era digitale in cui viviamo ora: anche qui alla base c’è l’anima. Basta saperla vedere. Einstein, lo scienziato per antonomasia, diceva che lui pensava sempre in termini musicali».

Oggi però bisogna esercitare la virtù dell’equilibrio per non farsi illudere e travolgere da tecnologia e tecnocrazia...
«In effetti le rivoluzioni tecnologiche sempre più veloci e incalzanti, stanno diventando destabilizzanti. Un pioniere di Internet disse che i figli dei nostri figli non avranno più amici. La vita è in fondo relazione. Sto scrivendo il mio secondo libro che parla anche di questo».

Di che tratta?

«Mi sono un po’ ispirato a Il mondo di Sofia di Jostein Gaarder, ma trasportato nel campo tecnologico e nell’era digitale. Si parla di matematica, fisica e musica. Due persone ogni giorno si confrontano su tematiche diverse, da com’è nato un amplificatore alle alterazioni in musica. Il mio mondo: scienza e musica».

Come Flatlandia, uno dei brani del nuovo disco...
«Avevo letto tempo fa l’omonimo libro del 1884 del teologo e filosofo Edwin Abbott, reverendo direttore di un istituto, un pedagogista, aveva due o tre lauree. È un racconto fantastico che narra la vita di un abitante di un ipotetico universo bidimensionale che entra in contatto con un universo tridimensionale. Come il racconto è una fusione di temi e generi letterari, così anche il mio brano è un mix di stili e influenze diverse che vanno dal classico al funk. Quello che io chiamo fujabocla».

Musica a più dimensioni?
«Sì, una dimensione sola è troppo poco. Fusion, jazz, bossa nova, classica. E molto altro. Rispetto all’era digitale, io per fortuna ho vissuto in un’età di mezzo. Lontano dai cellulari e da questo rap che sta inondando le orecchie dei ragazzi. Ma non c’è un antidoto alle mode: bisogna aspettare che passi l’onda sonora».

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